Due giornaliste, con alle spalle 20 anni di ricerche biografiche, hanno deciso di concentrarsi sul variegato mondo femminile, così poco studiato fino a non molto tempo fa e che la storia ha spesso relegato nel dimenticatoio...

martedì 18 ottobre 2016

Olimpia FRANGIPANE

Stemma dei Frangipane


di  Rita Frattolillo

(Mirabello Sannitico – Campobasso 1761-1830), nobildonna illuminista

Mente politica e intuitiva,  fiutò l’aria del tempo, attrezzando un seguito club giacobino, ma è stata ricordata dai biografi solo  per il suo presunto libertinaggio.
Non le furono risparmiati lutti e sventure, come quella di assistere impotente alla morte  di due figli.
Sono in pochi a sapere che tra i suoi discendenti vi è un intellettuale celebre, che ha segnato un’epoca, il filosofo Benedetto Croce.
Infatti la nipote Maria Luisa Frangipane sposò il giudice abruzzese Benedetto Croce, nonno del filosofo. Il quale era molto legato alla nonna molisana, e tornò più volte a Campobasso, anche per documentarsi sul grande condottiero pre-rinascimentale Cola di Monforte, oggetto dell’importante studio “Cola di Monforte conte di Campobasso”.  A fargli da “cicerone” nel capoluogo molisano, ad accompagnarlo fino al castello Monforte, Alfredo Trombetta, professore di materie artistiche, nonché fotografo famoso e ispettore onorario ai monumenti.
 Ma procediamo con ordine, sulla scorta dei documenti, specialmente lettere, che parlano di lei.
In uno dei periodi più caldi della nostra Storia nazionale, tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento,  nel Contado di Molise spicca una figura femminile  nota per la sua bellezza e la sua cultura. Olimpia, questo il suo nome, era figlia di Giuseppe Frangipane, duca di Mirabello Sannitico, paese del Molise distante pochi chilometri dal capoluogo Campobasso, dove era nata il 13 luglio 1761.
Il 13 e non il 16, perché il maggiore storico molisano, G. Masciotta, scambia erroneamente la data del battesimo con quella di nascita, e scrive 16-7-1761 (cfr. Il Molise dalle origini ai nostri giorni, volume IV, Il Circondario di Larino,  pp. 81-82).
Il casato dei Frangipane, di antiche origini romane, aveva acquistato fama, ricchezza e feudi destreggiandosi tra papi, re e imperatori. Districandosi tra le lotte che attanagliavano la città di Roma, la famiglia, che traeva il proprio cognome dalla generosità con cui durante una grave carestia un suo esponente dell’VIII sec. aveva sfamato la popolazione, si era alleata con gli svevi, ma questo non aveva impedito a Giovanni Frangipane di tradirli consegnando nelle mani di Carlo d’Angiò l’ultimo erede di Federico II,  il giovane Corradino, dopo la battaglia di Tagliacozzo (1268). Naturalmente Carlo aveva lautamente ricompensato Giovanni  con altri feudi nel napoletano.
 Tradimenti e alleanze, dunque, erano all’origine delle fortune della casata, una condotta antica e consueta negli alti ceti, a cui non si sottrae nemmeno la giovane Olimpia, che a venti anni sposa (24 febbraio 1781) il  barone di Castelbottaccio - paese adagiato sulle colline del medio Biferno - Francesco Cardone (1735-1810), più grande di ben ventisei anni. 
Castelbottaccio
Ben presto, la giovane, a differenza  del marito, che non sembra cogliere lo spirito dei tempi nuovi, si rende conto dell’aria che tira: siamo alla vigilia dei bagliori della Rivoluzione francese, e le idee di rinnovamento, grazie all’opera di giovani intellettuali che, avendo studiato a Napoli, erano venuti a contatto con i grandi riformatori Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri e i loro discepoli molisani Giuseppe Maria Galanti e Francesco Longano, avevano cominciato ad attecchire nel Contado di Molise.
 L’illuminismo francese, infatti, aveva trovato terreno fertile anche al Centro e al Sud, maturando alla luce delle peculiarità della nostra cultura. L’ideale di una società rinnovata e libera dalle oppressioni feudali si era fatta strada nel ceto intellettuale borghese e si andava diffondendo grazie ai cenacoli e ai salotti sorti, sull’esempio francese, in tutto il Paese, da Milano a Palermo.
Salotti frequentati dagli artisti,  poeti, scrittori e filosofi più famosi. Qualche nome? Ugo Foscolo, Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi e il suo amico Antonio Ranieri.
 Tra i club illuministi nati sulla scia di quelli francesi ha un ruolo  significativo il cenacolo voluto dalla baronessa Olimpia, a testimonianza del fervore intellettuale che si era creato e dello scambio osmotico esistente tra provincia e centro di potere, tra la periferia del regno borbonico e la capitale, Napoli.
Infatti, dopo aver svernato nel suo palazzo napoletano, la baronessa tornava in paese con le novità, anche quelle politiche.
 E’ così che adibisce a circolo un padiglione di caccia,  promuovendovi dibattiti e discussioni con matura responsabilità. Lì Olimpia riunisce  uomini d’azione e intellettuali dell’area bifernina favorevoli a un mutamento di regime.
 Certamente attratti dalla bellezza fiorente della padrona di casa, ma anche e soprattutto dalle idee di rinnovamento di cui lei si è fatta portabandiera.
 A qualche chilometro di distanza dal feudo della giovane nobildonna, un altro borgo, Civitacampomarano, paese natale dei Cuoco e della famiglia Pepe, nomi  che saranno legati alla rivoluzione partenopea, era un noto centro culturale, mentre nella vicina Casacalenda si trovava il gruppo più nutrito di intellettuali rivoluzionari molisani.
A Castelbottaccio, intanto, si moltiplicavano le congetture sulla vera ragione che spingeva uomini come Vincenzo Cuoco, Marcello Pepe, Vincenzo Ricciardi, Costantino Lemaître di Lupara, barone di Guardialfiera (maestro di V. Cuoco), Domenico De Gennaro e Scipione Vincelli, Andrea Valiante, Nicola Neri, ad affrontare i disagi di un viaggio fatto per lo più a dorso di mulo e guadando il Biferno, pur di non perdere le riunioni della baronessa. E sì, perché  allora quel fiume era ancora  privo di ponti.
Ma se indubbiamente donna Olimpia esercitava un fascino particolare sui suoi habitué, chi ne rimase colpito profondamente fu Vincenzo Cuoco (1770-1823). E’ opinione ormai largamente condivisa dagli studiosi, infatti, che egli, nella sua opera Platone in Italia (Milano, 1806), abbia voluto immortalare, nella figura di Mnesilla, la donna che lo aveva soggiogato.
Vincenzo Cuoco
Ma già prima della pubblicazione del Platone in Italia, una lettera del giovane molisano esiliato nella Savoia testimonia i tempi felici delle colte dispute con la baronessa e rivela la natura della profonda ammirazione che lo storico nutriva per lei:
«La natura non le aveva negato nessuno di questi doni onde suol rendere care e pericolose le sue simili, ed una bene istituita educazione non avea trascurato nessuno dei beni della natura.[…]
«Conosceva il disegno, il ballo, la poesia, e soprattutto le altre belle arti, amava e coltivava la musica, e le sue osservazioni erano figlie delle arti sue. Con questa donna, dunque, io ragionai quasi un mese sul piacere e sul bello. La disputa, incominciata un giorno, come per caso, ad occasione della lettura di un libro, ci parve tanto importante che risolvemmo di consacrarci due ore ogni giorno.[…] «Alle donne sembrava strano come si passassero due ore senza parlar di mode, senza dir male, senza fare all’amore.[…]
«Noi non facevamo all’amore;[…] Dunque parlavamo di filosofia» (Scritti vari, a c. di F. Nicolini, N. Cortese, vol. II,  pp. 296-297).
Nell’opera filosofica Platone in Italia leggiamo:
«La sua immagine era sempre presente a me, ma come l’immagine di una dea, che io temeva di offendere con qualunque affetto il quale fosse altro che ammirazione» ( Platone in Italia, Cappelli,  vol. II, p. 59).
Il sentimento del Cuoco andava oltre la semplice ammirazione, dal momento che, qualche rigo più avanti, egli si chiede: «L’anima mia e quella di Mnesilla perché non potrebbero intendersi, amarsi, riunirsi per sempre, compenetrarsi, formarne una sola?» (ibidem).
Probabilmente non sapremo mai se e fino a che punto i sospiri dello storico abbiano trovato accoglienza presso la bella Olimpia, anche se un segnale chiaro della situazione tra i due emerge quando egli confessa:
 «Ho sofferto molti giorni; ho tentato raddolcir la pena di oggi colla speranza di domani; il domani è venuto, e la mia pena è stata maggiore, maggiore la freddezza di lei […]. Pare che adesso siasi per la prima volta accorta dell’amor mio; le sue vesti, tutt’i suoi atti, tutte le sue parole sono composte e con maggiore severità: lo stesso sguardo, altre volte tanto pietoso, è diventato più raccolto» (ibidem, p.117).
A scorrere le lettere che si scambiano i due personaggi principali del Platone in Italia, Cleobulo e Mnesilla, si intuisce un rapporto intenso ma non privo di contrasti, in cui lui non perde occasione per manifestare affetto e apprezzamento per la donna.
Disgraziatamente il fatto che la nobildonna fosse tanto seducente ha condizionato  parecchio il giudizio di alcuni studiosi, che, abbagliati dalla sua fama di ape regina e dal suo innegabile esibizionismo, l’hanno condannata all’oblio della Storia.
Difficile credere, infatti, che il silenzio degli studiosi sia dovuto solo alla breve durata del club, chiuso nel 1795.
Perché, anche se di vita breve, quel circolo ebbe una risonanza particolare, essendo  un unicum nel Contado di Molise.
Comunque, il motivo della chiusura fu la visita di Andrea Coppola.
Costui, che era il  duca di Canzano,  noto esponente dei giacobini napoletani  nonché sospettato di essere affiliato alla massoneria, aveva  commesso il crimine di leggere e spiegare la Costituzione francese nel circolo della baronessa. C’era stata una spiata, e le conseguenze non si fecero aspettare.
Ma è opinione corrente che  a sminuire agli occhi di certi i biografi gli  indubbi meriti della baronessa come ispiratrice ed anima del club  sia stata la smania di vivere e la condotta spregiudicata di donna Olimpia, e una vita privata poco raccomandabile quale esempio edificante per fanciulle.
A quell’epoca non era permesso di mettere in discussione, nei fatti, l’immagine tradizionale di moglie e madre.
E la condotta della baronessa, donna energica e spirito libero a cui non bastava occuparsi dei tredici figli, tra cui ben otto femmine, si conciliava poco con i cliché dominanti.
Del resto, c’è poco da meravigliarsi, se, in ben altra temperie culturale, lo stesso Napoleone Bonaparte nutriva sinceri sentimenti di odio verso Madame de Stäel, che, per  essere una figura di spicco della scena politico-culturale, appariva ai suoi occhi intrigante e presuntuosa.
Va detto, tra parentesi,  che lei  ricambiava  l’imperatore con la stessa moneta.
Anche donna Olimpia - una de Stäel sannita formato Due Sicilie - suscitava giudizi e sentimenti non precisamente benevoli tra i suoi 914 vassalli.

Ma, dal momento che la polizia borbonica teneva d’occhio il circolo, esso non doveva essere  solo luogo di amabili conversari.
Così la pensa Giambattista Masciotta  quando osserva che le adunanze del club servivano «a tenersi al corrente delle cose pubbliche, a trovarsi pronti al cimento al primo appello» (G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, vol. IV, cit., p. 81).
Egli, dunque, è del parere che la giovane Olimpia, fiutando la gravità del momento, e temendo mutamenti troppo radicali, si propone come illuminata interprete dei nuovi fermenti, assumendo un ruolo-guida dei ceti sociali più aperti alle spinte di rinnovamento.
Del resto, una conferma della matrice squisitamente politica delle adunanze tenute dalla nobildonna viene dall’ordine governativo di soppressione del club, i cui aderenti, accusati di voler minare le basi dello Stato, andarono ad affollare le carceri di Lucera assieme ai giacobini della Capitanata.
Si parlò persino di “congiura molisana”, tanto che per Di Gennaro e Vincelli venne chiesta dalla Suprema Giunta di Stato la pena di morte, fortunatamente commutata in carcere.
Il duro intervento borbonico - a cui per una volta fu estraneo il potente e odiato ammiraglio Acton, ministro di re “nasone”, Ferdinando IV - suonò chiaro avvertimento per i tanti circoli giacobini disseminati nel Reame di Napoli, e, quindi, per la baronessa.
La quale, comunque, uscì indenne dalla turbolenze di quel periodo e continuò ad esercitare un ruolo di prestigio, oltre che nell’ambiente molisano, a Napoli, dove aveva dimora, e dove ebbe ancora contatti con i molisani scampati alla repressione.
 A Napoli ritrovò tra gli altri Vincenzo Cuoco rientrato dall’esilio.
Per avere un’idea di quanto fossero in vista gli artefici della rivoluzione partenopea, basti pensare, ad esempio, che Eleonora Fonseca Pimentel era apprezzata da  Metastasio e Voltaire, e che, prima di sposare la causa rivoluzionaria e di fondarne  l’organo di stampa, il “ Monitore Napoletano”, era stata bibliotecaria della regina Maria Carolina.
 Vincenzo Cuoco, noto uomo di legge nella capitale del regno,  fu il procuratore legale di Luisa Molina Sanfelice, quando costei si trovò coinvolta (10 giugno 1796) nei dissesti finanziari dovuti agli sperperi del marito Andrea (cfr. Maria Antonietta Macciocchi in L’amante della rivoluzione,  p. 27 e sg).
 Dopo il fallimento della Rivoluzione napoletana  egli si esiliò in Francia, dove scrisse il Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799.
 Rientrato in Italia, con l’avvento dei napoleonidi a Napoli occupò la carica di Consigliere del Magistrato di cassazione e poi ebbe la nomina di Consigliere di Stato.
 Nel 1815 il ritorno dei Borboni gli provocò uno sconvolgimento che sfociò nella malattia mentale da cui non si risollevò più. Morì a Napoli di setticemia, dopo una caduta che gli aveva causato la frattura di un femore.
Dalla corrispondenza di Cuoco apprendiamo che lui e Olimpia  si intrattenevano in lunghe passeggiate «sulle deliziose colline di Posillipo e Mergellina» ( Scritti vari, a c. di F. Nicolini, N. Cortese, p. 183).
Il carteggio di Olimpia, dei Cuoco (diventati parenti dopo il matrimonio di Matilde Cardone con Michele Cuoco, fratello di Vincenzo),  e soprattutto l’epistolario del generale Gabriele Pepe svelano certi lati della controversa personalità della donna.
Infatti il fitto carteggio del generale (l’intellettuale soldato famoso soprattutto per la disputa con il poeta-politico francese Lamartine) contiene molto più dei suoi ossequi alla baronessa, omaggi che non dimentica di porgere neanche dal carcere o dall’esilio.
 A lei, per «le sue conoscenze in Napoli» ricorre in più di un’occasione, come quando si tratta di ottenere la promozione a capo-battaglione dell’esercito (ottenuta nell’aprile 1813, grazie anche all’interessamento di Vincenzo Cuoco), o come quando occorre decidere sugli studi del  suo nipote preferito, Marcelluccio.
Ancora, in una lettera del 9 settembre 1813 indirizzata al fratello Carlo (G. Pepe, Epistolario, a c. di P. A. De Lisio, p.73), il generale Pepe, solitamente poco incline ai pettegolezzi, allude esplicitamente a «rapporti carnali» della baronessa con un cugino del marito, il conte di San Biase,  Francesco de Blasiis.
Non  intacca minimamente il duro giudizio del generale la constatazione che donna Olimpia era vedova già da tre anni ( il marito era morto a Napoli per una crisi apoplettica, nel 1810), e che, a 43 anni, nel pieno delle sue energie, aveva poca voglia di scendere di sella.
Forse anche il generale Gabriele Pepe si era lasciato contagiare dalla fama di ape regina della baronessa… Oppure non gli era sfuggita l’ostentazione di superiorità culturale di donna Olimpia nei confronti del vecchio marito, e quel garbo così poco spontaneo magari serviva solo a coprire le voci insistenti sul suo comportamento di moglie poco devota.
Probabilmente è proprio per quei «rapporti carnali» che, nel 1816, in una lettera al fratello Raffaele, egli la definisce «empia incestuosa donna» (Epistolario, cit., p. 81).
In realtà l’insieme delle lettere delinea una dama di cuori ma anche di denaro, una donna concreta, pronta a proteggere  i figli.
Cerca in tutti i modi di impedire - inutilmente - le seconde nozze della figlia Carmela con il fratello minore dei Pepe, Carlo, da lei considerato senza qualità e senza sostanze per poter mantenere la ragazza negli agi a cui era abituata.
L’affaire dei gioielli, poi, mette in luce una donna attenta a gestire il proprio patrimonio.
Per estinguere un debito di famiglia bisognava vendere i gioielli che Carmela aveva portato in dote, e che erano ancora in possesso della madre.
La quale, pur di non perderli, non esitò ad irretire il succube genero Carlo Pepe e a seminare zizzania tra i due fratelli.
Pure, a questa donna forte non furono risparmiate le sventure. Vide morire due figli, Carmela, il 24 maggio del 1817, e don Giuseppe, sacerdote, nel 1825.
Durante la grave infermità del giovane, nella lettera del 5 novembre 1825 al fratello Raffaele, il generale Pepe, mosso da pietà, di Olimpia scrive: «E’ la vera Madre de’ Dolori» (Ibidem,  p. 208).
Non dimenticò gli amici: fu vicina a Vincenzo Cuoco durante la terribile malattia che lo minò completamente, fino alla fine.
Donna Olimpia Frangipane  Cardone passò gli ultimi giorni senza affetti, senza più amici, senza gli agi di un tempo, e morì a Napoli all’età di 69 anni, nel 1830, portando nella tomba i segreti di un’esistenza irrequieta e densa di eventi oscurata ancora oggi da lunghe ombre.
Rita Frattolillo©2016 Tutti i diritti riservati
Bibliografia:
Cuoco Vincenzo, Platone in Italia, Cappelli, Bologna, 1932
Di Stefano Lino, Il cenacolo della baronessa Frangipane, Ed. Eva, Venafro, 2003
De Lisio P. Alberto (a c. di), Gabriele Pepe, Epistolario, SEI, Napoli, 1980
Frattolillo R.-Bertolini B., Il tempo sospeso Donne nella storia del Molise, Filopoli, Campobasso, 2007
Macciocchi M. Antonietta, L’amante della rivoluzione, Mondadori, 1998
Masciotta G., Il Molise dalle origini ai nostri giorni, volume IV, Il Circondario di Larino, E. Di Mauro, Cava dei Tirreni, 1952, ristampa Lampo, Campobasso, 1985
 Nicolini F., N. Cortese (a c. di), Scritti vari, Laterza, Bari, 1924

5 commenti:

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  2. Vitangelo Morea di Putignano Bari, che sposa la figlia Carolina Cardone, studia all'Università di Pavia Lingue viventi e morte accompagnate a Filosofia e Materie Mediche ove per quest'ultime ne riportò Diploma il 1 Luglio 1805. Frequentò il salotto del Barone Francesco di Castelbottaccio e di Olimpia Frangipane, ove conobbe la sua futura sposa Carolina.

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    1. Gradirei, se possibile, altri dettagli su Vitangelo Morea e Carolina Cardone.

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  3. Quindi un genero di Olimpia, questo sig Vitangelo di Putignano. Grazie, Cartesio

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  4. La famiglia Pepe a Castelbottaccio è stata molto numerosa fino agli anni 80; è possibile che essa discenda da Gabriele Pepe?

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