Dama del Cinquecento (Bronzino) |
di Barbara
Bertolini
(Napoli, 1468? - Napoli, dopo il
1529), feudataria
La mattina del 5 ottobre 1498 il conte e la contessa sono a Venafro ed è un
giorno particolarmente gravoso per Ippolita d’Aragona. Il marito Carlo Pandone
giace nel grande letto, facendo presagire il peggio. La stanza detta della
“Torretta” è la stessa dove era spirato,
appena sei anni prima, Scipione Pandone
II° Conte di Venafro, padre di Carlo.
I medici chiamati a consulto
hanno consigliato al giovane, per precauzione, di convocare un notaio per
dettare le sue ultime volontà. Nel Castello di Venafro originariamente nato
come difesa e che, con i Pandone, è stato trasformato anche in residenza
civile, arriveranno in giornata notai e
testimoni. Ed è lei che deve dare istruzioni alla numerosa servitù perché
uomini e cavalli siano rifocillati e alloggiati a dovere e tutto si svolga per
il meglio.
Mentre le voci le giungono ovattate attraverso i bui
corridoi del castello, Ippolita ripensa alla prima volta che vide Carlo
Pandone, conte di Venafro e di molte terre. Nella sua elegante giubba rossa
carmosino, con un ampio collare d’oro al collo, le fece una grande impressione,
mentre insieme ad altri nobili accompagnava i sovrani nel corteo dal duomo alla
reggia, portando orgogliosamente il palio.
I loro sguardi si incrociarono e
Carlo le lanciò un’occhiata carica di sensualità, lasciandola palpitante e
felice. Seppe poi che quel giovane le
era stato destinato. Il matrimonio tra lei e Carlo, celebrato nel 1491, era
stato combinato dallo stesso re Ferrante I per ricompensare i Pandone della
loro lealtà nei riguardi della casata aragonese. Lei è di sangue reale. Suo padre Enrico d’Aragona, marchese di
Gerace, è figlio naturale di Ferrante I d’Aragona, re di Napoli. La mamma è
invece Polissena Centeglia, di nobile famiglia. Circolavano voci, che le erano
poi state riferite, che lei, Ippolita, era figlia naturale del re. Menzogne!
Orribili menzogne.
Cavalieri sorreggono palio (Museo Morgan Library N.Y.) |
Le sue riflessioni sono interrotte da Fabrizio, il fido
cameriere del Conte, che ha bisogno di un sigillo. Fabrizio non ha chiuso la porta e la voce di
Carlo le giunge ora nitida. Quello che dice la lascia un po’ perplessa. Più che
un testamento, sembra una confessione. Carlo sta, infatti, dettando al notaio i
beni di cui si è illegittimamente impossessato e che dovranno essere o restituiti o risarciti. Sente il marito che
dice: «….rimborsare 120 ducati alla chiesa maggiore di Macchiagodena per una
croce d’argento; altri sei ducati dovranno essere restituiti alla chiesa di S. Maria Oliveto
per altro argento prelevato. Queste somme che vi enuncio le ho estorte e vanno
ridate al priore del convento di S. Pietro a Maiella di Boiano e all’arciprete
di Longano. Ripagate il giusto prezzo per i cavalli e le giumente che ho appena
comperati…» . Poi la porta si chiude sbattendo con forza ed ora le parole
arrivano indistinte e lontane. Si rende conto che Carlo sta veramente male se
lui, il fiero conte di Venafro, proprio ora, cerca di riparare ai molti atti
ingiusti commessi nei riguardi dei suoi vassalli, ora che deve fare i conti con
la sua coscienza. Chissà se andrà in Paradiso? Si affretta a scacciare questi
pensieri facendosi il segno della croce, ma la nobildonna sa che suo marito è
stato pesantemente contestato dai suoi feudatari. Così come lo sono stati tutti
i Pandone. E’, infatti, risaputo in tutto il regno che i venafrani per tradizione e per cuore sono
sempre stati con il nemico francese. Insofferenti ai Pandone, essi avevano
inviato molte petizioni al re di Napoli per chiedere la gestione demaniale di
Venafro.
Castello di Venafro (IS) |
L’ultima insubordinazione i vassalli del marito l’avevano
commessa solo tre anni prima, nel 1495, quando il giovane re di Francia Carlo
VIII conquistò senza colpo ferire la capitale campana. Loro, subito a
scrivergli.
L’arrivo del francese è stato un periodo critico per il
nobile venafrano, e nemmeno lei, stavolta, è riuscita a fare nulla alla corte.
Ma poi, per fortuna, malgrado il privilegio rilasciato dal
re di Francia per la salvaguardia e la
protezione della città di Venafro dalle prevaricazioni del suo feudatario, che ingiungeva al Pandone di restituire ai
cittadini tutto ciò che lui e suo padre avevano loro usurpato, non successe
proprio nulla. Carlo riuscì infatti a far valere le sue ragioni a Palazzo
reale, non per niente era stato un ambasciatore di Ferrante I. Ma anche perché
il re di Francia poco dopo lasciò Napoli e sul trono ritornò l’aragonese
Ferrante II, detto Ferrandino. Alla sua morte, avvenuta nel 1496, ad appena 29
anni, lo zio Don Federico gli succedette
e garantì a suo marito un’esistenza al riparo dalle brame dei vassalli.
Sente nel cortile uno
squillo di voci infantili e un calpestio di zoccoli, non possono essere che i
suoi figli avuti in sette anni di matrimonio: Enrico, Caterina e Sionna, che
tornano da una gita a cavallo con Lucio Schiavone maestro della loro scuderia,
tanto apprezzato da suo marito che, nel testamento, gli assegna una rendita
annuale di 20 ducati. Sbircia dalla finestra, ma non c’è più nessuno.
Da quando sono sposati, lei e Carlo dividono la loro
esistenza tra il palazzo residenziale ubicato a Porta Donnurso nei pressi di
San Pietro a Maiella in Napoli, e il castello di Venafro. Carlo, infatti,
quando non è occupato a controllare i suoi feudi o a guerreggiare, a corte svolge importanti
incarichi e lei è sempre stata un punto di riferimento importante per lui poiché come nipote di Ferrante, e “nipotastra”
sia della prima Giovanna, detta la Regina vecchia, che della seconda, detta la
Regina giovane, conosce a menadito la reggia e tutti quelli che vi gravitano ed
è molto abile nell’intrattenere rapporti con la corte. Probabilmente è anche
grazie a lei se al marito viene
riservata sempre una posizione privilegiata a palazzo reale.
I figli preferiscono il castello di Venafro. Soprattutto
Enrico che, così piccolo, mostra già una predilezione per i cavalli.
Ippolita d’Aragona sa già che Carlo destinerà tutto il suo
patrimonio proprio al figlioletto che ha appena tre anni. Sa anche, perché
glielo ha detto, che con lei nominerà
tutori anche la madre Lucrezia e i due fratelli Girolamo, Barone di Aliano e Silvio, vescovo di Boiano.
Quando il corteo esce dalla stanza della Torretta, Ippolita
trova il marito stanco ma rasserenato. Questo atto l’ha liberato dai suoi
tormenti. Si sente pronto ora ad affrontare il peggio. Carlo le prende la mano
con affetto. La moglie non riesce a trattenere le lacrime ed è lui a
rassicurarla. «Mi sento molto meglio, non ti preoccupare, vedrai che domani la
febbre passerà».
Ma la febbre non passa e poco dopo il terzo conte di Venafro
muore all’età di trent’anni, quasi nella media della vita raggiunta dai signori
all’epoca che era di circa 35. Infatti,
le guerre e le abbondanti libagioni accorciavano molto la loro vita. Ma
anche le malattie infettive come tifo, colera, peste o tubercolosi .
Il 25 novembre del
1498 Federico d’Aragona apre la successione di Carlo Pandone, dando incarico
al commissario Troiano Venato di andare a raccogliere il giuramento di fedeltà e di assicurazione a favore
dell’erede Enrico, presso i vassalli della contea di Venafro e della baronia di
Prata. Una data che certifica la morte di Carlo Pandone pochi giorni dopo aver
deposto le sue volontà e non colpito da un fulmine nel 1503 come detto da certi
storiografi.
Ippolita d’Aragona sarebbe stata sopraffatta dalla suocera e
dai cognati se nella gestione dei feudi di suo figlio non si fosse rivolta al re.
Egli, di carattere mite e buono , nutre verso la nipote un particolare affetto.
Lo dimostrano le corrispondenze che intrattiene con la nobildonna. Per esempio
in occasione della nascita del suo terzo figlio, l’8 aprile 1499, re Federico
partecipa il lieto evento solo al fratello Cesare e alla nipote Ippolita con il
seguente messaggio:
«In questa hora che sonno XXI havemo havuto aviso da Napoli
como la Serenissima Regina nostra amatissima consorte ad le hore XI del
medesimo dì ha partorito uno figliulo masculo» .
Ma anche le visite che il monarca aragonese compie a Venafro
subito dopo la morte di Carlo Pandone.
Busto di Ferrante I d'Aragona re di Napoli |
Approfitta, infatti, del fatto che deve recarsi a Castel di
Sangro, per trascorre il Natale del 1498 a Venafro, ricevuto con grandi onori.
La contessa ha preparato un’accoglienza
degna di un imperatore. La popolazione è andata incontro al suo sovrano
accogliendolo con il palio.
Ed è durante una di queste visite che l’abile contessa cerca
di far capire allo zio l’importanza dell’affidamento solo a lei dell’ufficio
tutelare per evitare l’intrusione di estranei nell’amministrazione dei beni del
figlioletto Enrico.
Federico esaudisce il suo
desiderio e, il 16 dicembre 1499, le notifica che, per evitare le
lungaggini burocratiche connesse alla nomina di un tutore,
«… havime deliberato che vuj in
nomo vostro e de lo prefato conte vostro figlio, debiate fare lo officio de
balio, inventariare et confirmare alj subditi soy et fare omne altra cosa
spectante ad balio delo prefato conte vostro figlio, tanto circha la
administratione de lo stato et boni como circha lo governo de la persona de lo
prefato conte …» .
La reggenza di Ippolita d’Aragona durerà da quella data fino
al 1514, anno del matrimonio di Enrico, quarto e ultimo conte della dinastia
dei Pandone.
L’intestazione della lettera inviatale dal monarca è:
“Illustri don Ipolite d’Aragona, comitesse Venafro nipoti nostre”, a
dimostrazione che Ippolita d’Aragona non poteva essere la figlia naturale del
Re Ferrante II, come sostengono alcuni storici tra cui il Guicciardini.
Per re Federico d’Aragona questi sono anni difficili e le
attenzioni della contessa gli sono di grande conforto. E Dio sa se Federico ha
bisogno di conforto. Infatti, riesce con difficoltà a far fronte ai pericoli
che si addensano sulla sua corona. Cerca di ricostituire fra i potentati
italiani quella lega che ha permesso al nipote Ferrante di riconquistare il
trono usurpato da Carlo VIII. E Ippolita, per aiutare il suo sovrano, non esita
a mettere a disposizione dell’ambasciatore veneto, che arriva nella città
partenopea nel marzo del 1499, il palazzo dei Pandone a Napoli.
La contessa vive sotto la protezione del re fino al 1501,
quando il monarca aragonese, dopo
l’invasione delle truppe francesi, si ritira lasciando il campo ai due
contendenti che mirano ad impossessarsi di Napoli: i francesi e gli spagnoli e
viene quindi dichiarato decaduto dal Papa .
E’ Consalvo da Cordova ad avere la meglio e a cacciare i francesi,
occupando definitivamente la capitale partenopea nel 1503, trasformando il
Regno di Napoli in un vicereame di Spagna che durerà circa due secoli.
Per l’aragonese che vede partire il suo protettore per
l’esilio in Francia, si prospettano tempi duri. Ma l’intelligente contessa di Venafro ha
imparato ormai, grazie al suo savoir-faire, a districarsi in qualsiasi
occasione.
Probabilmente è Ippolita ad aver dato l’adesione dei Pandone
in nome del figlio Enrico, al nuovo regime vicereale, quando Consalvo da
Cordova, il 25 aprile 1504, convoca per la prima volta il Parlamento e tutti i
feudatari, i prelati e i rappresentati delle città demaniali, chiedendo loro di
giurare fedeltà a Ferdinando il Cattolico e ad Isabella sovrani di Spagna .
Ippolita d’Aragona, a nome del figlio, è reintegrata in
tutti i suoi averi, compreso il palazzo napoletano dei Pandone, che dopo la
partenza di Federico era stato occupato dal cardinale Giovanni Borgia.
Per sua fortuna le
due Giovanne, Giovanna III matrigna di re Federico d’Aragona e Giovanna IV sua
sorellastra, dopo un breve soggiorno in Spagna, ritornano a stabilirsi a Napoli
e, a poco a poco, le abitudini, sotto gli spagnoli, riprendono come prima. Le
aragonesi non incontrano difficoltà, infatti, a circondarsi di una ristretta ma
sontuosa corte nella quale continuano, malgrado il cambiamento dinastico, a
godere di onori e rispetto di regine.
Lei è tra le assidue frequentatrici delle tristi regine (così amavano
definirsi).
Ippolita d’Aragona nell’amministrare i beni del figlio
dimostra competenza ed equilibrio, associati ad una visione liberale che
mancava totalmente ai Pandone. Erano impensabili allora le decisioni da
lei prese per esempio di accogliere la
richiesta di ridurre il carico e l’imposta vassallatica da 20 a 15 oncie di
carlini del suo feudo di Macchiagodena o di ammettere che chi rendeva servizio alla
sua corte meritava un salario. O ancora permetteva che i cittadini di
Macchiagodena potessero servirsi di filande diverse da quella baronale. Aveva
previsto di sottoporre al sindacato annuale l’amministrazione del suo
rappresentante per soddisfare coloro che eventualmente fossero rimasti
danneggiati dai suoi provvedimenti. Esentava gli abitanti dal fornire
gratuitamente la legna al loro capitano e acconsentiva a non far lavorare le
terre feudali a operai stranieri quando fosse disponibile la manovalanza
locale.
Il 18 dicembre del 1506 approvando i capitoli, statuti e
ordinamenti degli uomini di Lentino, condannava la bestemmia, lo spergiuro, la
calunnia, la rissa, il furto, il danno a persone, bestie e colture,
l’usurpazione, ecc.. e dettava norme di polizia interna e pubblica igiene.
Negli anni della sua reggenza, la contessa di Venafro
stabilisce la sua definitiva dimora a Napoli, anche se frequenta assiduamente
il suo feudo. La consuetudine voleva, infatti, che il feudatario lasciasse le
proprie residenze provinciali, covi di strapotere e riluttanza al governo
spagnolo, per vivere vicino alla corte vicereale.
Per Ippolita, questa scelta gioca invece tutto a suo favore
perché ha ormai imparato da tempo ad usare della sua grazia e della sua
intelligenza per cavarsela nel mondo subdolo delle corti. Infatti, dopo che
come altri feudatari anche i Pandone hanno aderito all’aggregazione del seggio
di Nido, la sua notorietà negli ambienti della capitale e del Regno è tale che la nobildonna viene citata fra i
personaggi di un romanzo storico, Question de amor de dos enamorados Salamanca,
scritto da un anonimo spagnolo, ambientato nella più eletta società partenopea
dell’epoca.
Anche la marchesa di Mantova, Isabella d’Este, quando, il 2
dicembre 1514 giunge a Napoli per rendere visita alle due regine, la nomina nel
suo diario. Così, infatti, detta al suo segretario Benedetto Capilupi:
« Smontassimo al palazo de la
Regina et salita le scale, andassimo alle stancie di Sua Maestà, quale ne
incontrò alla sala. Ivi facessimo riverentia a quella et gli baciassimo la mano
et così alla Regina giovine. Dopo entrate in camera di Sua Maestà abraciassimo
la s.ra marchesa de Bitonto, la s.ra contessa de Benaphri [Venafro], la S.ra dona Zoana, ambedue le
viceregine et molte altre S.re». (G. Morra, Una dinastia feudale I Pandone di Venafro)
Come confidente e fedele amica della Giovanna detta la
regina giovane, è citata anche da Jacopo Sannazaro in una lettera diretta ad
Antonio Seripando l’8 aprile del 1518,
poco prima che la regina spirasse. Ed è sempre Isabella d’Este che, descrivendo
la morte della regina, nomina ancora una volta Ippolita:
«La regina Ioanna infante morì a dì 27 passate le otto ore di
notte. In la camera de Sua Maestà erano la contessa di Benafro [Venafro], donna
Angela Viglieragusa, la s.ra Camilla de Gallara et Marza».
L’affetto che aveva sempre legato le due nobildonne di
sangue aragonese è confermato nel testamento della stessa Giovanna, dettato sei
giorni prima di morire. Infatti tra i lasciti, destina alla contessa Ippolita,
oltre ad alcuni preziosi addobbi, due cavalli delle razze reali che avranno
fatto felice il giovane Enrico ormai riconosciuto come uno dei migliori
cavallerizzi di tutto il vicereame e che alleva cavalli di razza nelle scuderie
venafrane. Una passione che lo porta a far realizzare un ciclo di pitture
equestri nel suo castello.
Cavalli affrescati nelle stanze del castello Pandone di Venafro |
Con la morte nel 1524 a Napoli di Isabella d’Aragona, figlia
di Alfonso II e moglie di Gian Galeazzo Sforza duca di Milano, si chiude
definitivamente, per la contessa, il
capitolo degli affetti familiari in una Napoli che ormai da tempo non è più
aragonese.
Probabilmente, da quella data Ippolita lascia
definitivamente la città partenopea per stabilirsi a Venafro dal figlio, che ha
trasformato il castello in una piacevole residenza rinascimentale. La
nobildonna ha preteso dal IV conte Pandone una rendita di 400 ducati all’anno
sulle entrate del feudo.
Enrico, infatti, si è
sposato nel 1514 con Caterina, bellissima figlia di Gianfrancesco Acquaviva
d’Aragona marchese di Bitonto, e da quella data è entrato pienamente in
possesso dei suoi titoli. Anche le due figlie sono state maritate. Caterina è
andata in moglie a Matteo Tros, mentre Sionna ha sposato il nobile venafrano
Francesco Mancino.
Nella tranquilla quiete venafrana, la nobildonna si adopera
in protezioni, soccorsi e beneficenze verso i suoi vassalli. Ne testimoniano
documenti dell’epoca che la descrivono nella sala del castello di Venafro intenta a maritare zitelle e a
proteggere derelitti.
Purtroppo di lì à poco è costretta ad abbandonare anche
Venafro.
Grazie alla loro fedeltà alla casa regnante, i Pandone, dal
primo conte Francesco a Carlo, avevano sempre goduto di una protezione speciale
a Napoli. Invece Enrico si schiera dalla
parte dell’invasore francese, Maresciallo Odetto de Fois, visconte di Lautrec .
Ed è la sua fine. E’ proprio nel
castello di Venafro, dove si era rifugiato con la moglie, che avviene la
cattura . Accerchiato da 300 cavalieri
al comando di Pompeo Farina è catturato e condotto a Napoli per esservi
decapitato nel dicembre del 1528, all’età di circa 33 anni, sul patibolo eretto
in Piazza del Castello. Tutti i suoi averi sono confiscati.
La tragica fine del figlio l’ha ridotta a vivere in
ristrettezze economiche a Napoli. Nel 1529, infatti, incarica il proprio
servitore e procuratore a reclamare dai Sindaci dell’Università di Venafro un
residuo di 110 ducati.
Dopo, non si hanno più notizie di lei. Può darsi che alla
sua morte sia stata seppellita nella cappella palatina di San Domenico
Maggiore, dove sono state ritrovate all’inizio del 2000, nel soppalco della
Sacrestia, quaranta bare di sovrani, principi e membri aragonesi della corte.
Barbara Bertolini©2014 tutti i diritti riservati.
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Franco Valente, I cavalli di EnricoPandone nel castello di Venafro
Memorie istoriche di Venafro compilate da Gabriele Cotugno
Memorie istoriche di Venafro compilate da Gabriele Cotugno
Che bel ritmo incalzante! Ho viaggiato con Ippolita tra il castello di Venafro e la Napoli multietnica di allora. Mi é cara questa contessa che per alcuni tratti mi ha ricordato la mia più vicina Cristina Trivilzio di Belgioioso. le donne, quante sorprese ci riservano! Altro che lavorio dietro le quinte...spesso con la propria fisicità e la grazia innata hanno risolto ragioni di stato! Bello leggerti Barbara, fra poco mi metto a lavorare anch'io.
RispondiEliminaGrazie, mi piacciono i lettori come te perché "vivono" il personaggio e commentano in modo mirabile! Aspetto con interesse la "tua" prossima donna.
RispondiEliminaComplimenti, molto ben scritto. Dovrebbe raccogliere queste biografie in un libro!
RispondiEliminaGrazie, molto gentile. Lo faremo.
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