(Molise, 1430? –
Mantova, 1465), nobildonna rinascimentale, sposa del condottiero campobassano Cola di
Monforte
Donna Abenante
passò il pomeriggio a esaminare personalmente il corredo della figlia
primogenita che di lì a poco avrebbe preso la via di Campobasso, feudo del
futuro genero, Cola di Monforte.
A quell’ora il castello era immerso
nel silenzio; solo il tramestio soffocato che saliva dalle cucine e lo
scalpitare impaziente dei cavalli nella corte dalla parte delle scuderie.
Congedato l’arciprete che aveva avuto ospite per certi consigli, ora si poteva
finalmente dedicare a quello che le stava a cuore e le dava pure qualche pensiero. Rimase
qualche istante a fissare il busto di marmo che, dalla mensola del camino,
sembrava sorvegliare l’ampia sala, poi si decise a prendere le scale.
Giunta in camera da letto, si avvicinò al cassettone di noce intarsiato; lì
erano riposti i capi migliori.
I tre materassi di paliocto che aveva promesso dovevano ancora
essere riempiti, ma il piumaccio fortunatamente era già pronto. Cominciò ad
aprire i pesanti tiretti e contò tredici tovaglie lavorate e tredici di panno
sottile; poi una camicia trapunta d’oro, una di seta e oro, un’altra tutta di
seta, due ricamate con filo e quattro di panno sottile; due paia di lenzuola. A
quel punto, si sedette pensierosa sulla cassapanca di legno dipinto ai piedi
del suo letto.
Due paia di lenzuola erano davvero poche, e non voleva sfigurare con i consuoceri…
Chissà, forse guardando meglio tra la sua biancheria avrebbe trovato qualche
lenzuolo ricamato ancora nuovo da aggiungere a quei panni così poco sfoggianti.
A quel pensiero, ebbe come un moto di ribellione: ma che le saltava in
mente?
Lei, donna Abenante di Attendolo, figlia dei conti di Cotignola, aveva
passato anni così neri che per poco non aveva dovuto rinunziare ai comodi del suo rango! Aveva dovuto, per necessità, dare fondo fino
all’ultima cammisa della sua dote…! Ma adesso, finalmente la malasorte era
finita.
Tutto merito di suo marito Paolo di Sangro, che era passato giusto in tempo dalla bandiera di
Renato d’Angiò a quella di Alfonso d’Aragona, e pazienza se questo gesto gli
era costato l’amicizia e il rispetto di Antonio Caldora; il suo vecchio
compagno d’armi alla prima occasione senza troppi giri di parole lo aveva
insultato chiamandolo traditore. Però, dopo il trionfo dell’aragonese, Paolo si
era visto lautamente ricompensato con quattro terre e una buona condotta di
gente d’armi. Aveva fatto proprio bene, suo marito, quando era passato dalla parte di Alfonso I, a
far sistemare in bella vista, sul prospetto del castello angioino di Civita, un
bello scudo sostenuto da un grifone nel quale i gigli angioini figuravano
capovolti…
Castello di Civita |
Adesso, continuava tra sé e sé donna Abenante, che non si risolveva ad
alzarsi dalla panca, potevano contare anche sulle entrate di Torremaggiore e
San Severo.
Peccato dover rinunciare ai 205 ducati della rendita di Ferrazzano, che
ormai da tre anni toccavano al futuro genero, come stabilito nei capitoli
matrimoniali concordati nel 1447.
All’idea dei
nuovi feudi che il giovane Cola, figlio
di Giovanna di Celano e di Angelo di Monforte Gambatesa, avrebbe portato in
famiglia dopo le nozze con Altabella, fissate per il 21 novembre 1450, donna
Abenante non poté trattenere un sospiro di soddisfazione. Il seno abbondante
stretto sotto il corpetto della veste da
casa sussultò, i suoi occhi scuri ebbero uno scintillìo.
Sì, sua figlia era proprio fortunata!
Infatti Nicola, o, come lo chiamavano, Cola, pur così giovane, già si
trovava una cospicua eredità, perché era
l’unico maschio di tutta la sua gente nella nuova generazione: lo zio Carlo
aveva tre figlie, la zia Vandella non aveva prole, e pure il prozio, Riccardo
di Gambatesa e Mirabello, aveva due
figlie femmine. Quando poi il padre di Cola, Angelo, ormai prossimo alla fine
per via di quella terribile lebbra, avrebbe reso l’anima a Dio, gli sarebbe
toccata l’eredità e il titolo paterno. E, cosa che non guastava, Cola era
uscito dalla scuola del Caldora, come suo marito Paolo e suo figlio Carlo, e
già si parlava di lui con timoroso rispetto
per la destrezza che dimostrava nel maneggio delle armi e per la fierezza del carattere.
Poco prima del suo matrimonio, il “domicello” Cola successe al padre deceduto nel titolo di
conte di Campobasso e, quindi, poté trattare direttamente col Di Sangro i
capitoli già firmati, procedendo alla stipula del contratto nuziale. Stipula
che avvenne nel castello di Civitacampomarano, un borgo arroccato su una cima
montuosa a 16 miglia da Campobasso, alla presenza dei vescovi di Trivento e
Guardialfiera, dei baroni di Sanframondo e di Eboli, di alcuni notabili
convenuti anche da Campobasso, tra cui un dottore in legge e tre arcipreti.
Quando Altabella, «magnifica damicella, filia legitima et naturalis
domini Pauli di Sangro», vide Cola, i tratti forti del volto incorniciato
da lunghi riccioli castani, passo deciso e fisico prestante, non poté fare a
meno, in cuor suo, di condividere il giudizio a dir poco lusinghiero espresso dalla
madre.
Presto fu soggiogata dal forte temperamento di lui, che da ogni gesto lasciava trapelare
orgoglio misto ad ambizione. La ragazza
entrò in uno stato di euforia al pensiero del
futuro pieno di promesse che le si apriva davanti.
Avrebbe finalmente detto addio
all’esistenza grigia e chiusa che aveva condotto tra le mura del suo
castello; l’aspettava una nuova vita, a Campobasso; ma, soprattutto, era ansiosa
di vedere Napoli, perché sicuramente avrebbero svernato nella capitale, dove lo sposo possedeva una dimora, indispensabile per chi aveva
necessità di stare il più possibile nella cerchia del re; a Napoli, si esaltava
Altabella, avrebbe frequentato la
Corte, sarebbe stata accolta dalle altre
dame e dai cavalieri del loro rango come si conveniva, con tutti gli onori.
Il matrimonio fu celebrato in una tiepida giornata novembrina con
solennità, secondo l’uso «per cultellum flexum» , «intra dominos, proceres,
nobiles et magnates»del Regno. Consegnando alla sposa, a
garanzia della corretta esecuzione dei patti matrimoniali, un simbolico
coltello a serramanico che lei avrebbe aperto,
Altabella, diveniva con quel
gesto investita dal consorte Cola quale signora dei beni mobili e immobili,
liberi e feudali.
La nascita di due figli maschi, Angelo e Giovancarlo, che crescevano sani e
forti, allietò di lì a poco la
famigliola.
Certo, Altabella avrebbe preferito un marito meno irrequieto, e perciò
accolse con grande soddisfazione la nomina di Cola a governatore delle
provincie dell’Abruzzo, nel 1458.
Ora, si diceva la donna per confortarsi, la vita troppo movimentata di Cola avrebbe
conosciuto una tregua, anche perché re Ferrante non perdeva occasione per
tirarlo dalla sua parte.
L’alta considerazione del re era evidente persino nelle lettere, che egli
intestava allo «Spectabili et magnifico viro Nicolao de Monforte, alias de
Gambatesa, comiti Campibassi, consiliario fideli nostro dilecto».
Castello Monforte |
Ma la contessa dové presto disilludersi.
Sfortunatamente,
poco dopo essersi insediato in Abruzzo, Cola cominciò a dare segni di distacco
da Ferrante. L’arrivo della flotta di Giovanni d’Angiò alle foci del Volturno,
nell’ottobre del 1459, spazzò definitivamente via le ultime incertezze del
conte, che, sperando in un suo Stato col favore dell’angioino, fece aperta defezione.
Il suo
orgoglio lo spinse persino a battere moneta per suo conto, senza chiedere autorizzazione
al re, gesto che indicava fuori ogni dubbio aperta disobbedienza.
Forse ad influenzare la decisione di Cola pesò anche il “cainato” Carlo di
Sangro, fratello “germano” di Altabella; così, almeno, re Ferrante asserisce
nelle sue missive.
Altabella con voce rotta cercò allora di dissuadere con ogni mezzo il
marito. Gli confidò tra le lacrime un atroce presentimento che le impediva il
sonno ormai da diversi giorni: la discesa del pretendente angioino al trono di
Napoli avrebbe segnato l’inizio della rovina per lui, che, fino a quel momento,
seguendo la politica di famiglia, era rimasto sempre fedele alla casa
d’Aragona.
Purtroppo le più nere previsioni
della contessa trovarono conferma: Cola non solo ospitò Giovanni con tutti gli
onori nel castello di Campobasso appena ristrutturato dopo il devastante terremoto del 1456, ma sui
suoi pennoni, accanto alla stendardo con la croce rossa in campo d’oro dei
Monforte, fece alzare il drappo azzurro degli Angiò gigliato d’oro, segno
inequivocabile della ribellione a Ferrante d’Aragona.
Ancora non contento, guidò pure
l’angioino fino alla Puglia.
Le operazioni militari furono a lungo intramezzate dai negoziati con i
riottosi, finché lo scontro armato, nelle campagne di Troia, il 18 agosto 1462,
ridusse definitivamente a mal partito Giovanni d’Angiò e i suoi fautori. Dopo l
a sconfitta, il pretendente angioino rientrò precipitosamente dal padre Renato,
in Provenza, lasciando il Campobasso (così veniva chiamato Cola) solo e senza
mezzi, alla mercé dall’Aragonese vincitore sul trono. Trepidante e angosciata,
la contessa viveva ora nell’incubo della
vendetta del vincitore, Ferrante.
Vendetta che non si fece aspettare, perché tra i ribelli solo Cola non si
arrese.
Egli fece invadere le terre del conte, saccheggiando e bruciando ogni cosa.
Dopo le battaglie che fecero cadere ad una ad una San Martino, Montorio e
Pontelandolfo, Cola fu lasciato dal
vincitore «denudato dei molti suoi lochi, ché pochi ne tiene e
rimarrà anche meno», scrive
benedetto Croce.
Anche Campobasso finì nel demanio regio, e le angustie economiche divennero
tanto insostenibili, che toccò addirittura vendere alla zia Vandella il feudo
di Gambatesa.
Intanto, Ferrante preparava la sua
trappola, fingendo di accordarsi con il ribelle; ma Cola, che conosceva di che
pasta era fatto il suo regale avversario, non ci cascò.
Così, tra la fine di giugno e i
primi di luglio del 1464, i Monforte ordinarono ai famigli di raccogliere lo
stretto necessario, e, scortati da pochi uomini fidati, si allontanarono in
tutta fretta dal Regno, per sottrarsi all’ira del re aragonese.
La meta della famigliola in fuga è
la lontana, sconosciuta Mantova, perché è dal marchese Ludovico Gonzaga che
Cola ha ricevuto una promessa di aiuto.
La sofferta decisione di partire era maturata dopo mille tentennamenti,
alla fine di un periodo che era sembrato un incubo.
Fino all’ultimo, Altabella aveva
sperato con tutte le sue forze di poter scongiurare quel terribile momento.
Oltre al dolore che provava all’idea di abbandonare il suo mondo, la opprimeva
l’incertezza del futuro. Ancor più l’allarmava la profonda stanchezza che aveva
letto negli occhi di Cola, che sembrava reduce da una lunga malattia.
Durante l’interminabile viaggio attraverso contrade mai viste, con la paura
di essere assaliti, derubati o addirittura uccisi dietro ogni curva, era impossibile, per la
contessa, tentare di rilassarsi , magari
scorrendo con lo sguardo le distese dei
campi o la sagoma ondulata delle colline che delineava l’orizzonte. La sua mente
vagava, angustiata, assalita da mille dubbi,
smarrita tra mille domande che non trovavano risposta. Che cosa
l’aspetta? Come sarà il nuovo ambiente? In che modo l’accoglieranno a corte,
ora che il marito è caduto in disgrazia?
Era l’alba, il velo della notte si era appena diradato portando via paure e
incertezze, quando ai suoi occhi
apparve, come in un miraggio, il nastro argenteo del fiume che si
snodava sinuoso e, in lontananza, il profilo dei tetti cominciò a
materializzarsi in mezzo ad una sottile pioggerella. La cinta muraria, e poi la
porta della città: finalmente erano arrivati!
Spossata e amareggiata, mise piede a Mantova. Le tempie le battevano per la
tensione.
Facendo leva sulla sua dignità, la
giovane contessa riprese il controllo e,
dopo essersi resa presentabile, fu ricevuta con i suoi alla corte dei Gonzaga,
consapevole che ormai il marito era «un uomo decaduto da potenza sociale e
politica, profugo dalla patria, ridotto a guadagnarsi il pane da soldato di
ventura».
La famiglia Monforte trovò una sistemazione adeguata al proprio rango nel
castello di Revere.
In piedi davanti alla finestra, Altabella passava le ore immersa nei suoi pensieri,
mentre seguiva il fluire pigro delle
acque verdastre del Po, maestoso tra le rive costeggiate di alberi.
L’accoglienza che aveva ricevuto a Corte era stata cortese, ma fredda. Quanta
fatica per adattarsi a quella terra
straniera, tra gente con altre usanze, e che parlava un’altra lingua…
Certo, per anni aveva sognato una Corte come quella, fastosa e raffinata;
al confronto il castello Monforte sfigurava parecchio, era una dimora spoglia, completamente priva di comodi. Ma
ora che le illusioni erano cadute, lei rimpiangeva quella vita austera,
semplice, forse un po’ rozza, ma certamente schietta, dove ognuno diceva quel
che il cuore dettava.
Lì a Mantova, invece, non riusciva a cancellare l’impressione che il
sorriso delle dame mascherasse una malcelata curiosità mista a compassione…
Anche in chiesa, la domenica, si sentiva osservata con insistenza dalle persone
raccolte nella penombra per la funzione religiosa.
Mai come allora aveva sentito il bisogno della forte presenza di Cola; con
lui al fianco, si sarebbe sentita meno disorientata, meno insicura.
Invece, poco dopo la loro sistemazione, egli partì per la Francia, in
qualità di capitano e condottiero per gli Angioini. Era naturale, a
quell’epoca, per i capitani di ventura
vendersi al migliore offerente. Anche Cola, di famiglia guerriera e allevato
con la consapevolezza che la vera e principale ricchezza su cui fare
assegnamento fosse la spada, fu condottiero e capitano fino alla fine. La sua
fama (“experto tam in Italia quam ultra montes”) guadagnata sui campi di
battaglia era tanto grande, che, alla
morte del Colleoni, il Senato veneziano il 18 marzo 1477 aprirà con lui le
pratiche per una buona condotta; ed era così sicuro del peso del suo nome, che
chiese a Lorenzo dei Medici di collocare
il figlio Angelo come condottiero sotto la bandiera medicea.
La sua nuova partenza, ora, significava per Altabella soprattutto una cosa: affrontare completamente
da sola le difficoltà della vita che le
si presentava.
Non poteva neanche contare sulla presenza (sul conforto, neanche a pensarci!)
dei figli, che erano rudi come il padre, e come lui presi unicamente dal
pensiero delle armi.
Le settimane divennero mesi che
scorrevano lenti e sempre uguali, solo qualche messaggio inviato da Cola, ogni
tanto, dalla Francia.
Un giorno, come svegliandosi da un lungo torpore, la contessa si rese conto
che la sua presenza, a Mantova, non era solo oggetto di curiosità. Ad una donna
non sfuggono certe occhiate eloquenti, e qualcuno si era spinto fino a
sussurrarle dei complimenti audaci. In ogni caso lei, ricordandosi degli
insegnamenti materni, aveva sempre risposto con lo sguardo basso e il silenzio.
Mantova |
Cupo quanto improvviso fu il rumore della tragedia: la contessa si trovava
nei suoi alloggi quando cadde nel sangue, vittima della feroce, repentina
reazione del marito.
Quell’uomo che tante altre donne le avevano invidiato quando si era fatto
avanti per chiedere la sua mano, ora la strappava alla vita e agli affetti. Non
lo sfiorò nessun dubbio sulla fondatezza delle dicerie, non ebbe nessuna pietà
per la madre dei suoi figli.
La lama era affondata più volte con
violenza in quel corpo ancora così giovane, colpendolo a morte.
Macchiandosi di uxoricidio, il conte suscitò una forte repulsione persino
nei suoi alleati, i francesi, che non avrebbero mai punito un’adultera con la morte. Essi avevano l’abitudine, meno cruenta ma non per
questo meno crudele, di restituire la donna ai genitori. Ripresa nella casa
paterna, era spogliata della dignità matrimoniale, e, così degradata, veniva
addetta alle più basse mansioni domestiche.
Non sapremo mai se quella infedeltà fosse stata effettivamente consumata,
né si conoscono i particolari del delitto, sul quale le cronache del tempo e
gli storici hanno calato un fitto velo.
Si accenna solo ad un uxoricidio efferato, eseguito dallo stesso Cola (che
sopravvisse alla moglie tredici anni) oppure da sgherri assoldati dal coniuge
oltraggiato e geloso.
Quel che è certo, è che dopo quell’oscuro fatto di sangue, della contessa
di Sangro non si fa più parola, quasi che fosse stata inghiottita nel nulla da
quella medesima Storia che l’aveva vista al fianco di uno dei condottieri più
rappresentativi del Quattrocento italiano.
Rita Frattolillo©2015
Bibliografia
Benedetto Croce, Cola di Monforte
conte di Campobasso, Università degli studi del Molise, 2001.
Vincenzo E.Gasdia, Storia di
Campobasso, v.II, Verona 1960.
Alessandro Kalefati, Dissertazione
istorico-critica della famiglia Monforte dei conti di Campobasso, rist.anastatatica, Campobasso 2013.
Complimenti Rita! Leggere i tuoi pezzi è come fare un volo sulle trame storiche di primavere vissute nei secoli, ma ancora oggi attuali per contenuti. La freschezza narrativa aiuta la comunicazione e la divulgazione.Alma
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