di
Rita Frattolillo
(Fasano di Brindisi, 11.4. 1887 –
Napoli, 19.4.1956), scrittrice
Figlia di due
cugini, Michele e Maria, Lina Pietravalle
nasce a Fasano di Brindisi, dove il padre aveva avuto una condotta
medica.
La bambina, che è la primogenita, cresce con
le sorelline Esther, Letizia, Livia, Maria Carolina (detta Carla) e il
fratellino Paolo in un ambiente della colta e ricca borghesia molisana. La
famiglia, nel 1894, si trasferisce a Pinerolo, e poi a Torino.
Qui, Lina entra nel Collegio “Villa Regina”, dove, indole ribelle, si sente “deportata”,
come scriverà in seguito. Fatica ad adattarsi all’ambiente austero e bigotto
del collegio, dove, tra l’altro, odia mangiare la polenta, che
diventa presto un incubo perché
gliela presentano a tavola in tutti i modi: affogata nella “bagna di pomodoro”
il lunedì, dorata e fritta il venerdì, e poi il sabato, con burro e latte.
Inutile
protestare, perché, per punizione, la maestra, anziché la polenta, le toglie la
frutta e le mette due in condotta.
«Avevo otto anni; ero
sola, triste, tradita. I miei poveri genitori, persuasi d’avermi fatto un
regalo, mi tenevano lì a diventare una signorina del gran mondo, secondo loro,
dimenticando che il mondo a quell’età ha il giro della tepida gonnella materna.
Di più ci separavano tre quarti dello stivale d’Italia» ( La polenta, in Marcia nuziale).
A “Villa Regina”, tuttavia, rimane per
continuare gli studi anche dopo il trasferimento dei suoi a Caserta.
Lina nel periodo del collegio torinese |
Lina sente di
rivivere quando ritorna nella sua terra, dove i Pietravalle sono stimati e
rispettati: il padre e il nonno Paolo sono medici; non mancano proprietà in
paese e lungo il fiume Trigno, nelle campagne salcitane, come fanno fede i
toponimi vallone e morgia dei Pietravalle.
Verso il centro
dell’abitato, c’è il palazzetto intonacato di rosa antico, rifinito in pietra
lavorata, e, tra Salcito e Bagnoli del Trigno, il casino di campagna detto “La
cipressina”, dove il padre Michele rifulge di vita e operosità.
Lì passa con la famiglia un’infanzia magica, e il
linguaggio ardito, impastato di termini dotti e dialettismi, delle sue creazioni letterarie fisserà sulla pagina le
immagini e le emozioni delle sue estati molisane, di ritorno dal collegio
torinese.
La strada del ritorno
era «bellissima,
lenta come il ritmo del tempo di allora, strada calma e patriarcale che
rispettava ogni lembo di terra e ogni diritto di pastura» (Il fatterello, nella raccolta omonima).
La diligenza, poi, «crepitava come un tizzo
sulla strada assolata e il gaio Salcito era ancora lontano, tra le sue rupi di
selce argentea ed il fiume antico irto di ginestre e querulo di bei ranocchi
felici» (idem).
Sarà proprio quel
casino di campagna, “La cipressina” ad essere scelto come topos dell’epilogo del
suo romanzo Le catene.
Il casotto "La cipressina" |
A Salcito, dentro casa, dai soffitti a volta
in carta dipinta, quando rientrava dalle sue scorribande per il paese, Lina si
incantava davanti al pesante pianoforte a coda che troneggiava di fronte ai
finestroni, e si incuriosiva davanti allo sportello semiaperto dello stipo con
l’altare domestico e l’immagine dell’Addolorata con il seno trafitto dalla
spada d’argento.
La ragazza torna
in famiglia quando il padre diventa direttore sanitario degli Ospedali riuniti
di Napoli, città in cui completa gli studi presso l’Istituto “Suor Orsola
Benincasa”.
A vent’anni
conosce un giornalista affermato, Pasquale Nonno, e lo sposa.
Una foto
ritrae la giovane coppia sullo sfondo del Pincio, a Roma: lei appena
atteggiata ad un vago sorriso, blusa e borsetta candide, cappellino piumato;
lui, piccolo di statura, baffetti e carnagione scura, sguardo vispo dietro agli
occhiali da intellettuale, paglietta chiara.
Questo periodo
della sua vita, in cui, anche per le ristrettezze economiche Lina vive con i
suoceri a Chiauci, un borgo di pastori della provincia isernina alla foce del
fiume Trigno, è rievocato con abilità plastica nei racconti di Marcia nuziale,
che è l’ultima raccolta di frammenti autobiografici. Protagonista di quelle
pagine, il mondo primitivo e passionale del borgo, in cui si stagliano forti le
personalità del suocero, una specie di capo tribù (era sindaco, notaio,
consigliere provinciale), e della suocera Elvira Cirese, che di Lina diceva
ammirata: “Essa
mi par dipinta da San Luca!”
A Chiauci, dove
la sposa viene accolta da “una schiera di fanciullette vestite di mussola
bianca” che intonano il Cantico dei Cantici,
nasce l’amato e unico figlio della coppia, Lionello, e lì la giovane
scrive lunghissime lettere al marito, che lavora a Roma. La sera, poi, le piace
in maniera particolare, perché «scendeva affocata e solitaria tra le montagne
d’oro e tutte le caserelle del paese umili e prosaiche avevano sui tetti le
monetine oscillanti del sole morente»
(Mia suocera, in Marcia nuziale).
La lontananza dal
marito, però, a poco a poco incrina il rapporto coniugale, finché si arriva
alla separazione definitiva.
Lina, allora, si
trasferisce anche lei a Roma con il figlio, allontanandosi, almeno fisicamente,
da quel Molise pietroso e rude che racconterà con prepotente vena narrativa,
andando incontro ad una parabola esistenziale segnata da gravi sventure.
Aveva annotato con cura una frase che amava
ripetere sua suocera: «La
vita buona, credetemi, è un’affacciata di finestra» (Mia suocera, in Marcia
nuziale) e quelle parole le
ritornarono alla mente sempre più spesso, quando alle soddisfazioni dovute alla
sua affermazione nel mondo culturale si intrecciarono troppe sventure
familiari.
A Roma, Lina
spera in una riappacificazione con il marito, che invece muore tre anni dopo la
rottura.
La scrittrice, che già a otto anni aveva
rivelato una fresca vena narrativa, malgrado le sgrammaticature, manifestando
in nuce il suo talento, vede arrivato il tempo di mettere a frutto il suo
estro, e comincia a collaborare a quotidiani e periodici. Scrive delle novelle
dove affiora prepotente il ricordo degli anni felici dell’infanzia e del suo
matrimonio giovanile. Potente fonte di ispirazione, un Molise arcaico e
incontaminato, percorso da forti sentimenti e passioni travolgenti. Una terra
popolata da una umanità istintiva, sensuale e dolente, immersa in un clima
senza storia e denso di fatalità. Tra quelle pietre, in quei paesaggi selvaggi
coesistono senza risentimenti braccianti e galantuomini, contadini e padroni,
spesso accomunati da un medesimo destino.
Nel 1923 riceve
il premio Bemporad per la novella Custoda,
che aveva segnato il suo esordio al “Mattino”,
ma la gioia per il riconoscimento ottenuto è offuscata da una nuova,
grave perdita, dopo quella della madre avvenuta nel 1920.
Il 28 giugno, il padre, esponente politico di
primo piano, viene assassinato vicino al
portone di casa a Napoli.
Michele
Pietravalle, medico in prima linea nel difendere gli interessi civili ed
economici del Molise e del Meridione, deputato radicale e vicepresidente della
camera dei deputati dal 1919 alla scomparsa, si stava ritirando a casa, in via
Cisterna dell’Olio, quando fu mortalmente ferito.
Dopo i solenni
funerali di Stato avvenuti a Napoli, e la sentita cerimonia seguita con grande
partecipazione dai salcitani (che nel 1938 hanno eretto un busto bronzeo nella
piazza a lui intitolata), a Lina tocca il triste compito della tumulazione del
padre nella tomba di famiglia dove anche
lei riposa dal 1956.
Prostrata e sola, continua la sua attività
letteraria, e l’anno seguente pubblica presso Mondadori la prima raccolta di
novelle, I racconti della terra, dedicata al padre. L’uscita di questa raccolta
è salutata da un grande successo. Definite audaci e moderne, le novelle erano
nuove non solo per i temi, ma soprattutto per il modo di trattarli. Fece
scalpore, poi, che i personaggi femminili vivessero le proprie passioni con una
assenza di moralismo assolutamente
osé per la mentalità chiusa di allora.
Inoltre le emozioni e le sensazioni descritte erano rese “visibili” grazie ad
una lingua pastosa, calda, carica di corporeità, strettamente aderente alla
materia narrativa, antropologica. Una scrittura emanata dall’acuta sensibilità
della narratrice, che sembra respirare all’unisono con le sue radici, tanto da
essere considerata, come ha scritto Nicoletta Pietravalle, «una sensitiva “incatenata”
alla sua terra».
Nel 1925 sposa l’architetto Giorgio Bacchelli,
fratello dello scrittore Riccardo, e la sua casa diventa meta dell’élite
culturale della capitale. Dopo questo matrimonio, Lina attraversa un periodo di
felice creatività e di riconoscimenti. A
critici e scrittori non sono sfuggiti lo
spessore e la forza del suo linguaggio; su “La Fiera letteraria” (14-11-1926)
compare il lusinghiero commento firmato da Riccardo Bacchelli , e un anno dopo,
il 21 novembre 1927, su il “Secolo” di Milano, Emilio Cecchi scrive: «Le sue
notazioni più vivaci, se hanno nel tratto una selvatica veemenza, poi, quanto
alla qualità della materia sensitiva e della scrittura, si è detto che sono
estremamente scaltre ed affinate».
Intanto si vive
un momento di svolta nel mondo letterario, poiché si stringe il legame tra
letteratura e giornalismo, fenomeno quanto mai evidente in riviste come
“Solaria”. E Lina non solo è presente su “Il Tempo”, il “Messaggero”, il
“Mattino”, il “Roma”, ma dà alle stampe altre sue novelle: Il fatterello (1928), Storie
di paese (1930).
Le novelle,
autentico laboratorio di formazione, sfociano in un romanzo, in gran parte
autobiografico - e rimasto unico - pubblicato lo stesso1930, con il titolo Le
catene. Curzio Malaparte, direttore de “La Stampa”, in una lettera del
22-7-1930 si dichiara «suo amico, suo ammiratore e suo alleato». Tuttavia l’accoglienza al romanzo fu contrastante.
Nei Quaderni del
carcere Antonio Gramsci, riprendendo la recensione di Giulio Marzot (il quale
considerava negativa nella scrittrice la coscienza del distacco dai contadini)
afferma che gli scrittori italiani, già molto tempo prima dello sviluppo del
naturalismo o realismo provinciale, vedevano il mondo contadino come «natura
estrinseca» a loro stessi, e che questo distacco si manifestava con una
benevola e leggera ironia.
Sulla “Nuova
Antologia”(1931)si legge : «…ma alla fine le si perdona volentieri la sua sintassi da
terremotata per merito di quel suo piglio franco e di quel linguaggio
immaginoso…
Ma è vero
o non è vero questo Molise fattucchiero, tarasconesco e attaccabrighe della
Pietravalle? Aspetto di andarci».
Molise con cui il legame non si è mai
allentato malgrado le vicende l’abbiano allontanata da quei luoghi dell’anima,
se lei continua a raccontarlo, in tutto il periodo tra le due guerre, con una
voce dal di dentro struggente e ironica assecondata da una penna feconda e sontuosa.
Impegnata a diffondere l’immagine della sua
terra oltre regione, scrive il saggio
Molise (collana Visioni spirituali d’Italia, diretta da Jolanda De Blasi), frutto di una conferenza tenuta al Lyceum di
Firenze il 25.2. 1931.
Il 1932 è un anno
particolarmente fortunato, perché viene assegnato alla scrittrice l’ambito
Premio Viareggio, a proposito del quale Adriano Tilgher asserisce:
«Il Molise è la provincia
ch’ella ha annesso alla letteratura italiana, come Grazia Deledda ha annesso la
Sardegna e Matilde Serao Napoli. Ma la originalità della Pietravalle è di avere
versato un vino del tutto nuovo nel vecchio otre della novella regionale e
paesana italiana».
Se in quegli anni si andavano affermando
scrittori “provinciali” come F. Jovine e A. Moravia, a cui lei è stata talvolta accostata, Lina,
in verità, ha fatto ben più che annettere il Molise alla letteratura italiana,
poiché non ha perso occasione per affermare l’identità molisana, mettendo in
luce il “Sannio Mistico”, e impegnandosi in prima persona in diverse questioni,
come quella a favore dell’autonomia
dall’Abruzzo.
Tra i molteplici
interessi della Pietravalle, va ricordato quello per la scuola.
Infatti nel 1927 l’editore Giuseppe Maffei di
Caserta pubblica un’antologia di diciassette letture per le scuole elementari
dal titolo Pagine Chiare, in cui la
firma di Lina appare insieme a quelle dei maggiori scrittori
del tempo, come Edmondo De Amicis. Dal 1930, inoltre, arricchisce la sua attività con la
realizzazione di “fumetti” regolarmente pubblicati su giornali come “Il Roma
della domenica” o il “Supplemento a Topolino”, ha sottolineato il poeta-editore
Gian Mario Fazzini.
Lina è ormai
famosa, e un altro molisano, suo parente di
parte materna, Arnaldo De Lisio (1869-1949), valente e affermato pittore a Napoli, dove,
in via Caracciolo (a palazzo Minozzi), ha uno studio frequentato dai più bei
nomi della società partenopea, le dedica diverse opere, tra cui un grande olio
che la raffigura nella sua sfolgorante bellezza.
Quadro di Arnaldo De Lisio firmato "tuo zio" |
Nel 1941, da un
suo soggetto cinematografico,
Immacolata, il regista Goffredo Alessandrini, compagno di Anna Magnani,
ricava il film (distribuito dalla Titanus) Nozze di sangue, storia di un
matrimonio tra emigrati nell’America del Sud.
Ma altre bufere
si stanno addensando sul suo capo. Il secondo marito, Giorgio Bacchelli,
capitano dell’Armir, cade in Russia nel 1942, in piena guerra. Trepidante, lei
aveva atteso il suo ritorno, sperando che fosse fortunato come suo fratello
Paolo, che subito dopo la laurea in ingegneria era partito per il fronte,
durante la grande guerra, scampando alla
morte. Anzi Paolo aveva dimostrato tanto coraggio da guadagnarsi la croce al
merito, e, nel 1921, era stato
incaricato di una missione molto delicata: la restituzione del materiale
trafugato dai tedeschi durante la guerra.
In quei giorni di speranza, Lina aveva
rivissuto l’angoscia di tutta la famiglia per il ritorno di Paolo, che era
l’ultimo della nidiata di casa Pietravalle.
Purtroppo,
Giorgio non tornò mai a casa, era morto
nella gelida steppa russa.
Ma poco dopo, a
Lina non venne risparmiato neanche lo strazio dell’uccisione (1944)
dell’amatissimo e unico figlio Lionello, avvenuta durante la guerra civile nel
nord Italia.
L’avverso destino
toccato ai suoi affetti rallenta l’attività della scrittrice, che,
definitivamente segnata dal dolore, da quel momento continua solo la sua
collaborazione con riviste e periodici fino al dicembre del ‘52.
Il suo cuore,
ormai, somiglia al palazzo abbandonato della suocera Elvira; di esso aveva
annotato, con lucida amarezza, nel 1932: «Cresceva l’erba intorno al portico, ma il
portone aveva colonne doriche; un basamento di pietra grigia col tempo e
l’acqua aveva preso un riflesso di ruggine e fiamma che pareva corresse nelle
spine della pietra come uno spirito corrucciato. E tutto il palazzo aveva
l’aria del corruccio e quella antica tristezza piena di melodia, che nasce dai
tradimenti del tempo»
(Mia suocera, in Marcia nuziale).
Lina muore a
Napoli il 19 aprile 1956 in casa della sorella Esther, quasi completamente
dimenticata da quel mondo che ne aveva salutato l’originalità dell’ispirazione
e la magia linguistica delle opere.
Le sue spoglie
riposano nella cappella del cimitero di Salcito. Sulla sua tomba sono incise
queste parole che riassumono la sua sofferta vicenda umana:
«Lina Pietravalle/ dal cui dolore umano/
sgorgarono le favole le gemme/ di fervida scrittrice molisana/ qui accanto agli
avi/trova la pace che non ebbe in vita. Nacque l’11 aprile 1887 a Fasano di
Puglia da Michele Pietravalle e da sua cugina Maria Pietravalle. Morì il 19 aprile
1956, a Napoli, ritiratasi presso una sua sorella in solitudine».
Nel 1981 Giorgio
Petrocchi (“Il Tempo” del 13 aprile), affrontando la questione della
“contaminazione” di Verga e D’Annunzio ravvisata da alcuni critici nella
scrittura della Pietravalle, analizza la struttura narrativa elaborata dalla
scrittrice e afferma:
«E’ chiaro che la
Pietravalle ha letto i veristi, guai se ciò non fosse avvenuto […], così come
ha letto la Deledda […]. Ma è altrettanto evidente che la Pietravalle si è
proposto in maniera autonoma il problema della costruzione del romanzo,
giocando con abilità sull’alternanza tra racconto oggettivo e narrazione in
prima persona. Tale alternanza, assai diffusa nel romanzo decadente, è
piuttosto rara in quello realistico;[…]. Il romanzo è evidentemente
autobiografico, o almeno l’autobiografismo è una delle sue componenti maggiori,
[…], e indubbiamente la più scattante, schietta, efficace, accanto all’indubbia
capacità di descrizione del paesaggio. Inoltre è da segnalare la presenza di
una sorta d’incastro tra una costante appoggiatura demotica, affidata a fitti
dialettismi di conversazione, e un discorso solenne, arcaico, di alto
lignaggio, di cui la Pietravalle è consapevole utilizzatrice».
I suoi maggiori
lavori sono stati ristampati anastaticamente in occasione del centenario della
sua nascita e presentati a Roma, nel Campidoglio, nel corso di una solenne
cerimonia, e poi, ancora a Roma e a Campobasso, per il cinquantenario della sua
morte.
©2014 Rita
Frattolillo – Tutti i diritti riservati
Bibliografia
BERTOLINI Barbara,
FRATTOLILLO Rita, Molisani Milleuno
profili e biografie, Enne, 1998.
FAZZINI Gian
Mario, Una breve nota bio-bibliografica,
in I racconti della terra di Lyna Pietravalle, nuova edizione a cura della
libreria ed. Filopoli di G.M. Fazzini, 2006.
FRATTOLILLO Rita,
BERTOLINI Barbara, Il tempo sospeso-
Donne nella storia del Molise, Filopoli 2007.
GRAMSCI Antonio, Quaderni del carcere, Einaudi 1975.
IACOBUCCI Gabriella,
Incontri con Lina Pietravalle, Nat3,
2014.
PETROCCHI Giorgio,
“Il Tempo”, 13 aprile 1981.
PIETRAVALLE Lina,
Il Molise, a cura di Renato Lalli,
Nat3, 2014.
PIETRAVALLE Lina,
Il fatterello, Mondadori, 1928.
PIETRAVALLE Lina,
Le catene, Mondadori, 1930.
PIETRAVALLE Lina,
Marcia nuziale, Bompiani, 1932.
PIETRAVALLE Nicoletta,
Molise Perduto - venticinque anni di
giornalismo culturale, De Luca, Roma, 1998.
PIETRVALLE Paolo,
Michele Pietravalle. La vita, Le lettere,
1926.
TILGHER Adriano,
“Roma”, 20.8.1931.
Internet:
Estratto di Marcia Nuziale, l’arrivo di una giovane sposa nel paese dei suoceri.
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