giovedì 26 febbraio 2015

Ippolita d'ARAGONA


Dama del Cinquecento (Bronzino)
di Barbara Bertolini

(Napoli, 1468? - Napoli, dopo il 1529), feudataria

La mattina del  5 ottobre 1498  il conte e la contessa sono a Venafro ed è un giorno particolarmente gravoso per Ippolita d’Aragona. Il marito Carlo Pandone giace nel grande letto, facendo presagire il peggio. La stanza detta della “Torretta”  è la stessa dove era spirato, appena sei anni prima,  Scipione Pandone II° Conte di Venafro, padre di Carlo.  I  medici chiamati a consulto hanno consigliato al giovane, per precauzione, di convocare un notaio per dettare le sue ultime volontà. Nel Castello di Venafro originariamente nato come difesa e che, con i Pandone, è stato trasformato anche in residenza civile,  arriveranno in giornata notai e testimoni. Ed è lei che deve dare istruzioni alla numerosa servitù perché uomini e cavalli siano rifocillati e alloggiati a dovere e tutto si svolga per il meglio.
Mentre le voci le giungono ovattate attraverso i bui corridoi del castello, Ippolita ripensa alla prima volta che vide Carlo Pandone, conte di Venafro e di molte terre. Nella sua elegante giubba rossa carmosino, con un ampio collare d’oro al collo, le fece una grande impressione, mentre insieme ad altri nobili accompagnava i sovrani nel corteo dal duomo alla reggia, portando orgogliosamente il palio.
Cavalieri sorreggono palio (Museo Morgan Library N.Y.)
I loro sguardi si incrociarono e Carlo le lanciò un’occhiata carica di sensualità, lasciandola palpitante e felice.  Seppe poi che quel giovane le era stato destinato. Il matrimonio tra lei e Carlo, celebrato nel 1491, era stato combinato dallo stesso re Ferrante I per ricompensare i Pandone della loro lealtà nei riguardi della casata aragonese. Lei è di sangue reale.  Suo padre Enrico d’Aragona, marchese di Gerace, è figlio naturale di Ferrante I d’Aragona, re di Napoli. La mamma è invece Polissena Centeglia, di nobile famiglia. Circolavano voci, che le erano poi state riferite, che lei, Ippolita, era figlia naturale del re. Menzogne! Orribili menzogne. 
Le sue riflessioni sono interrotte da Fabrizio, il fido cameriere del Conte, che ha bisogno di un sigillo.  Fabrizio non ha chiuso la porta e la voce di Carlo le giunge ora nitida. Quello che dice la lascia un po’ perplessa. Più che un testamento, sembra una confessione. Carlo sta, infatti, dettando al notaio i beni di cui si è illegittimamente impossessato e che dovranno essere o  restituiti o risarciti. Sente il marito che dice: «….rimborsare 120 ducati alla chiesa maggiore di Macchiagodena per una croce d’argento;  altri sei ducati  dovranno essere  restituiti alla chiesa di S. Maria Oliveto per altro argento prelevato. Queste somme che vi enuncio le ho estorte e vanno ridate al priore del convento di S. Pietro a Maiella di Boiano e all’arciprete di Longano. Ripagate il giusto prezzo per i cavalli e le giumente che ho appena comperati…» . Poi la porta si chiude sbattendo con forza ed ora le parole arrivano indistinte e lontane. Si rende conto che Carlo sta veramente male se lui, il fiero conte di Venafro, proprio ora, cerca di riparare ai molti atti ingiusti commessi nei riguardi dei suoi vassalli, ora che deve fare i conti con la sua coscienza. Chissà se andrà in Paradiso? Si affretta a scacciare questi pensieri facendosi il segno della croce, ma la nobildonna sa che suo marito è stato pesantemente contestato dai suoi feudatari. Così come lo sono stati tutti i Pandone. E’, infatti, risaputo in tutto il regno che  i venafrani per tradizione e per cuore sono sempre stati con il nemico francese. Insofferenti ai Pandone, essi avevano inviato molte petizioni al re di Napoli per chiedere la gestione demaniale di Venafro.
Castello di Venafro (IS)
L’ultima insubordinazione i vassalli del marito l’avevano commessa solo tre anni prima, nel 1495, quando il giovane re di Francia Carlo VIII conquistò senza colpo ferire la capitale campana. Loro, subito a scrivergli.
L’arrivo del francese è stato un periodo critico per il nobile venafrano, e nemmeno lei, stavolta, è riuscita a fare nulla alla corte. 
Ma poi, per fortuna, malgrado il privilegio rilasciato dal re di Francia  per la salvaguardia e la protezione della città di Venafro dalle prevaricazioni del suo feudatario,  che ingiungeva al Pandone di restituire ai cittadini tutto ciò che lui e suo padre avevano loro usurpato, non successe proprio nulla. Carlo riuscì infatti a far valere le sue ragioni a Palazzo reale, non per niente era stato un ambasciatore di Ferrante I. Ma anche perché il re di Francia poco dopo lasciò Napoli e sul trono ritornò l’aragonese Ferrante II, detto Ferrandino. Alla sua morte, avvenuta nel 1496, ad appena 29 anni, lo zio Don Federico  gli succedette e garantì a suo marito un’esistenza al riparo dalle brame dei vassalli.
Sente nel cortile uno squillo di voci infantili e un calpestio di zoccoli, non possono essere che i suoi figli avuti in sette anni di matrimonio: Enrico, Caterina e Sionna, che tornano da una gita a cavallo con Lucio Schiavone maestro della loro scuderia, tanto apprezzato da suo marito che, nel testamento, gli assegna una rendita annuale di 20 ducati. Sbircia dalla finestra, ma non c’è più nessuno. 
Da quando sono sposati, lei e Carlo dividono la loro esistenza tra il palazzo residenziale ubicato a Porta Donnurso nei pressi di San Pietro a Maiella in Napoli, e il castello di Venafro. Carlo, infatti, quando non è occupato a controllare i suoi feudi o a  guerreggiare, a corte svolge importanti incarichi e lei è sempre stata un punto di riferimento importante per lui  poiché come nipote di Ferrante, e “nipotastra” sia della prima Giovanna, detta la Regina vecchia, che della seconda, detta la Regina giovane, conosce a menadito la reggia e tutti quelli che vi gravitano ed è molto abile nell’intrattenere rapporti con la corte. Probabilmente è anche grazie a lei  se al marito viene riservata sempre una posizione privilegiata a palazzo reale.
I figli preferiscono il castello di Venafro. Soprattutto Enrico che, così piccolo, mostra già una predilezione per i cavalli.
Ippolita d’Aragona sa già che Carlo destinerà tutto il suo patrimonio proprio al figlioletto che ha appena tre anni. Sa anche, perché glielo ha detto, che con lei  nominerà tutori anche la madre Lucrezia e i due fratelli Girolamo, Barone di Aliano  e Silvio, vescovo di Boiano.
Quando il corteo esce dalla stanza della Torretta, Ippolita trova il marito stanco ma rasserenato. Questo atto l’ha liberato dai suoi tormenti. Si sente pronto ora ad affrontare il peggio. Carlo le prende la mano con affetto. La moglie non riesce a trattenere le lacrime ed è lui a rassicurarla. «Mi sento molto meglio, non ti preoccupare, vedrai che domani la febbre passerà».
Ma la febbre non passa e poco dopo il terzo conte di Venafro muore all’età di trent’anni, quasi nella media della vita raggiunta dai signori all’epoca che era di circa 35. Infatti,  le guerre e le abbondanti libagioni accorciavano molto la loro vita. Ma anche le malattie infettive come tifo, colera, peste o tubercolosi .
Il 25 novembre del  1498 Federico d’Aragona apre la successione di Carlo Pandone, dando incarico al commissario Troiano Venato di andare a raccogliere il giuramento di  fedeltà e di assicurazione a favore dell’erede Enrico, presso i vassalli della contea di Venafro e della baronia di Prata. Una data che certifica la morte di Carlo Pandone pochi giorni dopo aver deposto le sue volontà e non colpito da un fulmine nel 1503 come detto da certi storiografi. 
Ippolita d’Aragona sarebbe stata sopraffatta dalla suocera e dai cognati se nella gestione dei feudi di suo figlio non si fosse rivolta al re. Egli, di carattere mite e buono , nutre verso la nipote un particolare affetto. Lo dimostrano le corrispondenze che intrattiene con la nobildonna. Per esempio in occasione della nascita del suo terzo figlio, l’8 aprile 1499, re Federico partecipa il lieto evento solo al fratello Cesare e alla nipote Ippolita con il seguente messaggio:  
«In questa hora che sonno XXI havemo havuto aviso da Napoli como la Serenissima Regina nostra amatissima consorte ad le hore XI del medesimo dì ha partorito uno figliulo masculo»  . 
Ma anche le visite che il monarca aragonese compie a Venafro subito dopo la morte di Carlo Pandone.
Busto di Ferrante I d'Aragona  re di Napoli

Approfitta, infatti, del fatto che deve recarsi a Castel di Sangro, per trascorre il Natale del 1498 a Venafro, ricevuto con grandi onori. La contessa  ha preparato un’accoglienza degna di un imperatore. La popolazione è andata incontro al suo sovrano accogliendolo con il palio.
Ed è durante una di queste visite che l’abile contessa cerca di far capire allo zio l’importanza dell’affidamento solo a lei dell’ufficio tutelare per evitare l’intrusione di estranei nell’amministrazione dei beni del figlioletto Enrico.
Federico esaudisce il suo  desiderio e, il 16 dicembre 1499, le notifica che, per evitare le lungaggini burocratiche connesse alla nomina di un tutore,
«… havime deliberato che vuj in nomo vostro e de lo prefato conte vostro figlio, debiate fare lo officio de balio, inventariare et confirmare alj subditi soy et fare omne altra cosa spectante ad balio delo prefato conte vostro figlio, tanto circha la administratione de lo stato et boni como circha lo governo de la persona de lo prefato conte   …» .
La reggenza di Ippolita d’Aragona durerà da quella data fino al 1514, anno del matrimonio di Enrico, quarto e ultimo conte della dinastia dei Pandone.
L’intestazione della lettera inviatale dal monarca è: “Illustri don Ipolite d’Aragona, comitesse Venafro nipoti nostre”, a dimostrazione che Ippolita d’Aragona non poteva essere la figlia naturale del Re Ferrante II, come sostengono alcuni storici tra cui il Guicciardini.
Per re Federico d’Aragona questi sono anni difficili e le attenzioni della contessa gli sono di grande conforto. E Dio sa se Federico ha bisogno di conforto. Infatti, riesce con difficoltà a far fronte ai pericoli che si addensano sulla sua corona. Cerca di ricostituire fra i potentati italiani quella lega che ha permesso al nipote Ferrante di riconquistare il trono usurpato da Carlo VIII. E Ippolita, per aiutare il suo sovrano, non esita a mettere a disposizione dell’ambasciatore veneto, che arriva nella città partenopea nel marzo del 1499, il palazzo dei Pandone a Napoli.
La contessa vive sotto la protezione del re fino al 1501, quando  il monarca aragonese, dopo l’invasione delle truppe francesi, si ritira lasciando il campo ai due contendenti che mirano ad impossessarsi di Napoli: i francesi e gli spagnoli e viene quindi dichiarato decaduto dal Papa .  E’ Consalvo da Cordova ad avere la meglio e a cacciare i francesi, occupando definitivamente la capitale partenopea nel 1503, trasformando il Regno di Napoli in un vicereame di Spagna che durerà circa due secoli.
Per l’aragonese che vede partire il suo protettore per l’esilio in Francia, si prospettano tempi duri.   Ma l’intelligente contessa di Venafro ha imparato ormai, grazie al suo savoir-faire, a districarsi in qualsiasi occasione.
Probabilmente è Ippolita ad aver dato l’adesione dei Pandone in nome del figlio Enrico, al nuovo regime vicereale, quando Consalvo da Cordova, il 25 aprile 1504, convoca per la prima volta il Parlamento e tutti i feudatari, i prelati e i rappresentati delle città demaniali, chiedendo loro di giurare fedeltà a Ferdinando il Cattolico e ad Isabella sovrani di Spagna .
Ippolita d’Aragona, a nome del figlio, è reintegrata in tutti i suoi averi, compreso il palazzo napoletano dei Pandone, che dopo la partenza di Federico era stato occupato dal cardinale Giovanni Borgia.
Per sua  fortuna le due Giovanne, Giovanna III matrigna di re Federico d’Aragona e Giovanna IV sua sorellastra, dopo un breve soggiorno in Spagna, ritornano a stabilirsi a Napoli e, a poco a poco, le abitudini, sotto gli spagnoli, riprendono come prima. Le aragonesi non incontrano difficoltà, infatti, a circondarsi di una ristretta ma sontuosa corte nella quale continuano, malgrado il cambiamento dinastico, a godere di onori e rispetto di regine.  Lei è tra le assidue frequentatrici delle tristi regine (così amavano definirsi). 
Ippolita d’Aragona nell’amministrare i beni del figlio dimostra competenza ed equilibrio, associati ad una visione liberale che mancava totalmente ai Pandone. Erano impensabili allora le decisioni da lei  prese per esempio di accogliere la richiesta di ridurre il carico e l’imposta vassallatica da 20 a 15 oncie di carlini del suo feudo di Macchiagodena o di ammettere che chi rendeva servizio alla sua corte meritava un salario. O ancora permetteva che i cittadini di Macchiagodena potessero servirsi di filande diverse da quella baronale. Aveva previsto di sottoporre al sindacato annuale l’amministrazione del suo rappresentante per soddisfare coloro che eventualmente fossero rimasti danneggiati dai suoi provvedimenti. Esentava gli abitanti dal fornire gratuitamente la legna al loro capitano e acconsentiva a non far lavorare le terre feudali a operai stranieri quando fosse disponibile la manovalanza locale.
Il 18 dicembre del 1506 approvando i capitoli, statuti e ordinamenti degli uomini di Lentino, condannava la bestemmia, lo spergiuro, la calunnia, la rissa, il furto, il danno a persone, bestie e colture, l’usurpazione, ecc.. e dettava norme di polizia interna e pubblica igiene.
Negli anni della sua reggenza, la contessa di Venafro stabilisce la sua definitiva dimora a Napoli, anche se frequenta assiduamente il suo feudo. La consuetudine voleva, infatti, che il feudatario lasciasse le proprie residenze provinciali, covi di strapotere e riluttanza al governo spagnolo, per vivere vicino alla corte vicereale.
Per Ippolita, questa scelta gioca invece tutto a suo favore perché ha ormai  imparato da tempo  ad usare della sua grazia e della sua intelligenza per cavarsela nel mondo subdolo delle corti. Infatti, dopo che come altri feudatari anche i Pandone hanno aderito all’aggregazione del seggio di Nido, la sua notorietà negli ambienti della capitale e del Regno è tale  che la nobildonna viene citata fra i personaggi di un romanzo storico, Question de amor de dos enamorados Salamanca, scritto da un anonimo spagnolo, ambientato nella più eletta società partenopea dell’epoca.
Anche la marchesa di Mantova, Isabella d’Este, quando, il 2 dicembre 1514 giunge a Napoli per rendere visita alle due regine, la nomina nel suo diario. Così, infatti, detta al suo segretario Benedetto Capilupi:
« Smontassimo al palazo de la Regina et salita le scale, andassimo alle stancie di Sua Maestà, quale ne incontrò alla sala. Ivi facessimo riverentia a quella et gli baciassimo la mano et così alla Regina giovine. Dopo entrate in camera di Sua Maestà abraciassimo la s.ra marchesa de Bitonto, la s.ra contessa de Benaphri  [Venafro], la S.ra dona Zoana, ambedue le viceregine et molte altre S.re». (G. Morra, Una dinastia feudale I Pandone di Venafro)
Come confidente e fedele amica della Giovanna detta la regina giovane, è citata anche da Jacopo Sannazaro in una lettera diretta ad Antonio Seripando l’8  aprile del 1518, poco prima che la regina spirasse. Ed è sempre Isabella d’Este che, descrivendo la morte della regina, nomina ancora una volta Ippolita:
«La regina Ioanna infante morì a dì 27 passate le otto ore di notte. In la camera de Sua Maestà erano la contessa di Benafro [Venafro], donna Angela Viglieragusa, la s.ra Camilla de Gallara et Marza». 
L’affetto che aveva sempre legato le due nobildonne di sangue aragonese è confermato nel testamento della stessa Giovanna, dettato sei giorni prima di morire. Infatti tra i lasciti, destina alla contessa Ippolita, oltre ad alcuni preziosi addobbi, due cavalli delle razze reali che avranno fatto felice il giovane Enrico ormai riconosciuto come uno dei migliori cavallerizzi di tutto il vicereame e che alleva cavalli di razza nelle scuderie venafrane. Una passione che lo porta a far realizzare un ciclo di pitture equestri nel suo castello.
Cavalli affrescati nelle stanze del castello Pandone di Venafro
Con la morte nel 1524 a Napoli di Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II e moglie di Gian Galeazzo Sforza duca di Milano, si chiude definitivamente, per la contessa,  il capitolo degli affetti familiari in una Napoli che ormai da tempo non è più aragonese.
Probabilmente, da quella data Ippolita lascia definitivamente la città partenopea per stabilirsi a Venafro dal figlio, che ha trasformato il castello in una piacevole residenza rinascimentale. La nobildonna ha preteso dal IV conte Pandone una rendita di 400 ducati all’anno sulle entrate del feudo.
Enrico, infatti,  si è sposato nel 1514 con Caterina, bellissima figlia di Gianfrancesco Acquaviva d’Aragona marchese di Bitonto, e da quella data è entrato pienamente in possesso dei suoi titoli. Anche le due figlie sono state maritate. Caterina è andata in moglie a Matteo Tros, mentre Sionna ha sposato il nobile venafrano Francesco Mancino.
Nella tranquilla quiete venafrana, la nobildonna si adopera in protezioni, soccorsi e beneficenze verso i suoi vassalli. Ne testimoniano documenti dell’epoca che la descrivono nella sala del castello  di Venafro intenta a maritare zitelle e a proteggere derelitti.
Purtroppo di lì à poco è costretta ad abbandonare anche Venafro.
Grazie alla loro fedeltà alla casa regnante, i Pandone, dal primo conte Francesco a Carlo, avevano sempre goduto di una protezione speciale a  Napoli. Invece Enrico si schiera dalla parte dell’invasore francese, Maresciallo Odetto de Fois, visconte di Lautrec . Ed è la sua fine.  E’ proprio nel castello di Venafro, dove si era rifugiato con la moglie, che avviene la cattura .  Accerchiato da 300 cavalieri al comando di Pompeo Farina è catturato e condotto a Napoli per esservi decapitato nel dicembre del 1528, all’età di circa 33 anni, sul patibolo eretto in Piazza del Castello. Tutti i suoi averi sono confiscati.
La tragica fine del figlio l’ha ridotta a vivere in ristrettezze economiche a Napoli. Nel 1529, infatti, incarica il proprio servitore e procuratore a reclamare dai Sindaci dell’Università di Venafro un residuo di 110 ducati.
Dopo, non si hanno più notizie di lei. Può darsi che alla sua morte  sia stata seppellita  nella cappella palatina di San Domenico Maggiore, dove sono state ritrovate all’inizio del 2000, nel soppalco della Sacrestia, quaranta bare di sovrani, principi e membri aragonesi della corte.
Barbara Bertolini©2014 tutti i diritti riservati.
Note e Bibliografia:

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CAETANI G., Regesta Chartarum, vol. VI, doc. 1176
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VALENTE Franco, Presenza a Venafro di un personaggio del Cinquecento molisano Enrico Pandone, in “Almanacco del Molise 1976”, Nocera editore, Campobasso 1977, pp.401-418,
MORRA Gennaro, Una dinastia feudale I Pandone di Venafro, Ed. Enne, Campobasso 1985
ALBANESE Camillo, Un regno perduto, Fausto Fiorentino, Napoli 1990
MORRA Gennaro, VALENTE Franco, Il Castello di Venafro, storia arte architettura, Edizioni Enne, Campobasso 1993
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LALLI Renato, Il Molise e l’Europa, Tip. Lampo, Campobasso 2005
FRATTOLILLO Rita, BERTOLINI Barbara, Il tempo sospeso, donne nella storia del Molise, Libreria Editrice Filopoli, Campobasso 2007



4 commenti:

  1. Che bel ritmo incalzante! Ho viaggiato con Ippolita tra il castello di Venafro e la Napoli multietnica di allora. Mi é cara questa contessa che per alcuni tratti mi ha ricordato la mia più vicina Cristina Trivilzio di Belgioioso. le donne, quante sorprese ci riservano! Altro che lavorio dietro le quinte...spesso con la propria fisicità e la grazia innata hanno risolto ragioni di stato! Bello leggerti Barbara, fra poco mi metto a lavorare anch'io.

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  2. Grazie, mi piacciono i lettori come te perché "vivono" il personaggio e commentano in modo mirabile! Aspetto con interesse la "tua" prossima donna.

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  3. Complimenti, molto ben scritto. Dovrebbe raccogliere queste biografie in un libro!

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