Due giornaliste, con alle spalle 20 anni di ricerche biografiche, hanno deciso di concentrarsi sul variegato mondo femminile, così poco studiato fino a non molto tempo fa e che la storia ha spesso relegato nel dimenticatoio...

venerdì 5 gennaio 2018

GIUSEPPINA BAKHITA, Santa

(1869 Olgossa, Sudan -  1947 Schio, Vicenza), una santa africana


di Barbara Bertolini

«Dai suor Moreta contéme ncora ela storia. No volemo favole, volemo quea dela sciava nereta». Non si stancavano mai di ascoltare la storia della sua vita questi  benedetti  toseti.
Suor Giuseppina, al secolo Bakhita nome che, come vedremo, non era nemmeno il suo, aveva avuto una vita davvero avventurosa e aveva incontrato sul suo cammino personaggi più  cattivi di Barbablù e Mangiafuoco messi  insieme. Una di quelle storie  che scuotono i sentimenti e fanno versare fiumi di lacrime. Ecco perché i suoi bambini reclamavano in veneto, lingua che aveva imparato venendo in Italia, sempre e solo la storia della sua vita.
Bakhita non amava raccontarla perché era costretta a riportare alla memoria fatti che avrebbe voluto seppellire per sempre ora che era una donna libera. Libera infine di decidere del suo destino, di avere dei desideri, di poter sostare a parlare con chiunque senza incorrere in punizioni. Era insomma riuscita ad acquisire quella libertà che quasi tutti hanno ma, proprio per questo, non l’apprezzano.  Lei, invece, sapeva benissimo che cosa significava  essere schiavi, avere un padrone che decide per te e tu devi fare tutto quello che ti ordina, anche le cose più orrende,  perché ti ha comperata, sei sua, come il suo cane, il suo cavallo, il suo fucile: sei un oggetto nelle sue mani  e lui da te può pretendere tutto. Questa era, fino al suo arrivo nel Veneto, la condizione di Bakhita.
Bakhita, di pelle nera,  è nata intorno al 1869 nel villaggio d’Olgossa  nella tribù nubiana dei Daju, un piccolo villaggio del Darfour  nel Sudan occidentale che alla sua epoca doveva essere una regione molto verde. I primi anni dell’infanzia saranno bellissimi. Nel villaggio la bimba cresce sana, circondata dall’affetto di tutti, con un padre ed una madre amorevoli:  due sorelle e tre fratelli completano questo quadro familiare.
La schiavitù è una piaga di cui tutta l’Africa soffre da tempi immemori. Una pratica millenaria che in certi paesi africani ha portato grande benessere, come in Guinea che, grazie al commercio degli schiavi, alla fine del XIX secolo giunse ad avere un quarto degli introiti del Regno Unito che all’epoca era la più grande potenza economica del mondo. Fu la rivoluzione francese a far prendere coscienza dell’aberrazione di questa pratica, rivoluzione che portò i diritti umani in primo piano e, da allora,  poco a poco, tutti i paesi europei giunsero ad abolire la schiavitù. In molti paesi dell’Africa, invece, come Mauritania, Ciad, Sudan, Niger, per esempio, essa continuò e continua, in certi luoghi,  anche al giorno d’oggi, dove vengono rapiti bambini per farne carne da macello per le guerre che insanguinano l’Africa.
CATTURATA COME SCHIAVA
Nella famiglia di Bakhita si temevano i mercanti di schiavi che rapivano bambini o giovani adulti per venderli.  Nel Sudan il lupo delle nostre favole era travestito da negriero, era questo uomo cattivo ad abitare gli incubi dei bambini.  Infatti i genitori raccontavano: «Bimba mia stai attenta perché ti metteranno un collare attorno al collo e delle catene alla caviglia e non potrai più correre nella savana, ti venderanno ad un uomo che ti comprerà come del carbone da buttare sul fuoco…».  
Già due anni prima del rapimento di Bakhita, sua sorella gemella era stata catturata e non si era saputo più nulla. Ma, si sa, i bambini sono ingenui e, appena si presenta una persona che al primo approccio sembra benevola, non fanno scattare l’arma della diffidenza e si lasciano intrappolare con facilità nelle loro rete.  Ed è quello che è successo a Bakhita che, in compagnia di un’amica più grandicella, incontra i suoi carnefici. Lei ha intorno agli otto-nove anni (non ricorda bene la sua età) ed è una bella bambina piena di vita. Probabilmente i negrieri, pastori nomadi arabi venuti dal Kordofan che vivono di questo commercio, l’avevano già adocchiata ed aspettavano il momento propizio per rapirla. Momento che si presenta  quando le due bambine vanno nei campi circostanti alla ricerca di erbe per cucinare. Sono allegre, spensierate e tutto sembra sorridergli in quella giornata luminosa. 
Due uomini cordiali, piene di belle attenzioni, rivolgono la  parola alla più grandicella che ha circa 12 anni. Le chiedono di permettere alla più piccola di andare con loro nella vicina foresta perché guarda caso hanno un involucro per lei che si sono dimenticati lì. Le dicono di rincasare tranquillamente perché la compagna ritornerà subito da sola. Questa raccomandazione è per impedirle di gridare e attirare l’attenzione dei paesani.  Ed è lì che il destino gioca la sua parte. Bakhita non rivedrà mai più i suoi genitori, vivrà una vita molto simile all’inferno fino all’adolescenza e poi, inaspettatamente, le si spalancheranno le porte del paradiso perché lei, nata di fede animista, diverrà una santa cattolica: Santa Giuseppina Bakhita.
MA RIPARTIAMO DAI MALVIVENTI:  COMINCIA L’ODISSEA DI BAKHITA
I negrieri fanno presto a mutare atteggiamento. Arrivata vicino al bosco la bambina capisce che non c’è nessun involucro per lei e quando scoppia a piangere i due le dicono con fare minaccioso e il fucile puntato:  «Se gridi ti ammazziamo subito». Lei vuole divincolarsi  e urlare, ma è talmente traumatizzata che non riesce a muovere un muscolo. Quando le viene chiesto come si chiama, non  le esce nemmeno un suono dalla bocca. Ed è così che uno dei due, per scherzo, decide di chiamarla Bakhita, che in arabo significa “la fortunata”. Un nome beffardo, dato per  caso, ma che sarà invece un segno dal destino.
I due arabi si devono allontanare il più velocemente possibile da quel luogo, ecco perché strattonano la bimba e la fanno camminare velocemente malgrado il terreno accidentato, i rovi e le spine che la feriscono. Bakhita piange disperatamente ma i negrieri vedono in lei solo il futuro guadagno, quindi nessuna pietà per questa negretta piagnucolosa. Si fermano solo quando arrivano in un prato pieno di cocomeri, frutto che cresce in abbondanza nel Darfur da febbraio a marzo. L’anno è probabilmente il 1878.
Offrono anche a lei quel frutto ma la bambina non riesce ad ingurgitare nulla. Comincia ad albeggiare quando si arriva infine nel loro villaggio ancora addormentato. La bimba viene chiusa in un bugigattolo nella casa di uno dei due e, come ricorda lei, questo stanzino era «Pieno di arnesi e di rottami e non vi erano né sacchi né letto. Il nudo terreno doveva servire a tutto» . Le viene lanciato un tozzo di pane e le si chiede di rimanere lì buona, mentre la porta viene chiusa con un lucchetto. 
In quel bugigattolo sarà rinchiusa per un mese e vedrà spalancarsi la porta solo una volta al giorno, il tempo di ricevere un po’ di cibo. Riuscirà a vedere la luce unicamente attraverso un piccolo foro in alto. Un mese di sofferenza indicibile per una bambina che ha perso tutto e tutti. Una disperazione piena di lacrime che si placa solo quando si addormenta e sogna la sua famiglia a cui racconta il suo immenso dolore. 
Poi una mattina la porta si apre prima del solito. Fuori dalla porta c’è un mercante di schiavi a cui viene venduta. Viene quindi messa insieme agli altri schiavi: tre uomini e tre donne tra cui una fanciulla di poco maggiore di Bakhita. Rivedere il cielo e la campagna è un grande sollievo per la bambina, sollievo che dura ben poco perché le vengono messe le catene come agli altri: un collare di ferro, agganciato con una catena ad un’altra schiava. E la carovana si mette in moto, tutti in fila, gli uomini davanti e le donne dietro e guai se qualcuno si ferma perché non solo ferisce il suo collo ma anche quello del compagno a cui è incatenato.

Dopo qualche ora di questa marcia forzata gli schiavi si ritrovavano con delle piaghe profonde causate da questi ferri. Di paese in paese la carovana s’ingrandisce sempre più perché vengono raccolte via via tutte le persone catturate. Questa marcia forzata dura otto giorni. Arrivano infine al mercato degli schiavi dove vengono sistemati in uno stanzone in attesa della vendita. Il mercante cede prima i più deboli per paura che possano morire da un momento all’altro lasciandolo senza guadagno. Intanto le due piccole, che sono state incatenate insieme, approfittano dei momenti in cui non sono osservate per raccontarsi le loro vicende e parlare delle loro famiglie. Facendo nascere, così, sempre più, il desiderio di fuga.
BAKHITA E L’AMICA TENTANO LA FUGA
Il negriero arabo, nel frattempo, le aveva portate a casa sua e le aveva isolate in una rimessa che chiudeva a chiave ogni volta che si allontanava. Solo che una sera, come racconta Bakhita:  «Ritorna dal mercato con un mulo carico di pannocchie. Ci toglie le catene e ci ordina di mondare queste pannocchie, e sopra pensiero, si allontana senza chiudere la porta a chiave». 
Le ragazze capiscono che questo è il momento buono  per fuggire. Aprono la porta e corrono come lepri verso la savana, camminando nella natura, senza sosta.  Appena sentono il ruggito di un leone si rifugiano sugli alberi, e vanno avanti così tutta la notte sperando di arrivare al loro villaggio e di riabbracciare i loro cari, mentre, invece, si allontanano sempre più. Ad un certo punto incontrano anche un’altra carovana di schiavi e si nascondono. E’ ormai l’alba quando si sentono esauste e vedono in lontananza una casupola che le fa sobbalzare il cuore. Ma non è la loro. Mentre stanno pensando sul da farsi le si para davanti un uomo. Stanno per fuggire ma egli, come gli altri, le circuisce con buone maniere, e, dopo aver la conferma che sono in fuga, le porta a casa sua e le offre da mangiare e poi le incatena nell’ovile, pronto anche lui a venderle al primo mercante di schiavi che passa.  Cosa che avviene poco meno di una settimana dopo.
Ed è così che, incatenate, vengono accodate ad una nuova carovana scoprendo con stupore che vi sono schiavi  che appartenevano all’arabo da cui erano scappate, e che raccontano loro la violenta reazione dell’uomo e della fortuna che hanno avuto a non rifinire nelle sue grinfie. Prima di arrivare al lontano mercato di schiavi di El Obeid, capitale del Kordofan, dove saranno vendute, dovranno camminare per altre due settimane e mezzo.
VENDUTA AL GENERALE TURCO
Appena giunti a El Obeid vengono tutti condotti nella casa del capo degli arabi, un uomo ricchissimo che possiede già tanti giovani schiavi. Le due fanciulle rimangono in quella casa, assegnate come ancelle alle figlie, in attesa di essere destinate al figlio che di lì a poco si dovrà sposare. Lì saranno infine trattate bene, in particolare dalle  figlie del padrone. Ma un giorno Bakhita commette uno sbaglio nei riguardi proprio del figlio del commerciante il quale monta immediatamente su tutte le furie e comincia a prenderla a scudisciate. Quando lei cerca scampo nascondendosi dietro le sue sorelle, la violenza del ragazzo sale a tale punto che la riempie di calci fino a lasciarla inanime a terra. Saranno gli altri schiavi a doverla portare a braccio sul suo giaciglio dove rimarrà tra la vita e la morte per più di un mese. Dopo questa esperienza verrà addetta ad un altro lavoro e poi venduta ad un nuovo padrone. 
A comperarla  sarà un generale dell’impero ottomane che svolge la sua funzione a El Obeid e che vive lì con la moglie, la figlia e una vecchia madre. Bakhita e un’altra schiava sono addette al servizio  delle due anziane che rivaleggiano in cattiverie verso gli schiavi.  Il generale ne possiede molti e tutti vengono trattati con  crudeltà. La padrona arriva al punto d’alzarsi presto solo per vedere se i suoi schiavi ritardano anche di pochi minuti il loro risveglio. Per ogni mancanza sono frustate che piombano addosso, senza misericordia, su questi poveretti.  Racconta Bakhita:
«Un giorno io e la mia amica ci trovammo presenti per caso quando il padrone altercava con la moglie. Quegli per sfogarsi ordina a due soldati di buttarci a terra supine per subire la flagellazione. Quei due con quanta forza avevano cominciano il crudele supplizio e ci lasciano tutte e due tramortite, immerse nel nostro sangue. Ricordo come la verga, mirata a più riprese sulla coscia, mi portò via pelle e carne, mi procurò un lungo canaletto che mi fece stare immobile sul giaciglio per mesi senza che nessuno si preoccupasse di curarmi».
Una volta viene di nuovo incatenata perché la figlia del turco sente Bakhita raccontare la sua fuga all’altra schiava. Le catene le saranno tolte solo un mese dopo, per la fine del Ramadam, che obbliga tutti i padroni a toglierle ai loro schiavi.
Ma la cosa peggiore, e che le lascerà un segno per tutta la vita facendola soffrire, è lo schiribizzo della moglie del generale che fa venire una tatuatrice perché vuole che le sue schiave abbiano dei segni indelebili del suo possesso. Narra Bakhita:
«Ordina alla prima di noi tre di distendersi per terra e a due schiave delle più forti di tenerla ferma. La tatuatrice si china su di lei e comincia con la farina a fare sul ventre di quella disgraziata  una sessantina di segni fini. Prende poi il rasoio e giù, giù, tagli su ogni segno che aveva tracciato. Finita l’operazione prende il sale e, con forza, stropiccia ogni ferita, perché vi entri ad ingrossare il taglio onde tenere i labbri aperti».
La poveretta gemeva, tremava, ma alla malefica padrona non le bastava questo strazio, era lì con lo scudiscio in mano pronta a colpire se le tre ragazze non si fossero sottomesse ai suoi voleri. Le schiave, immerse nel sangue, svenute, sono poi riportate sui loro giacigli dove rimarranno più di un mese a gemere senza nemmeno una pezzuola con cui asciugare l’essudato che fuoriesce dalle ferite. 
A distanza di anni, chi  ha visto i segni sul corpo di Bakhita, è rimasto impressionato per la disumanità subita. E, in quella casa, la sudanese dovrà sottomettersi  ad un altro trattamento crudele, stavolta per mano del padrone. Non si sa per quale motivo a questo generale, che dice di essere fiero dello sviluppo armonio della sua schiava, non gli vanno a genio i seni della fanciulla che si sta facendo donna. Bakhita, come gli altri servi, era vestita solo con uno straccio che le copriva il bacino, null’altro. Un giorno il turco fa chiamare l’adolescente che, accorre al suo cospetto, si inginocchia come è d’uso. La fa alzare e le  prende tra le mani i seni e comincia a storcerle le mammelle in modo brutale, come fossero stracci da strizzare, ricorda  Bakhita, che non poteva fuggire e che dovette subire questa tortura restando ferma, immobile,  senza un lamento, altrimenti rischiava anche una bella dose di frustate. Solo quando la schiavetta sviene, l’uomo mollerà la sua presa per ricominciare anche i giorni seguenti. 
Questo episodio è stato raccontato da Bakhita solo in tarda età perché è stato talmente devastane per lei che, a distanza d’anni, se ne vergognava ancora, riuscendo a commentare: «Ed io ora sono come una tavola liscia».
VENDUTA A KHARTUM AL CONSOLE ITALIANO
E poi arriva un giorno che il generale deve ritornare in Turchia e che, quindi, deve vendere tutti i suoi schiavi. Conserva e porta con sé solo i dieci migliori, tra cui Bakhita, per cederli al suo arrivo a Khartoum, che si trova sulla via del ritorno, dove può sperare in un miglior guadagno. Infatti, appena arrivato in albergo fa spargere la voce che ha schiavi da piazzare. Si presenta l’allora agente consolare italiano, Calisto Legnani che riscatta Bakhita.
La ragazza non capisce che sta per essere venduta. Solo il giorno dopo, quando il generale turco le ordina di aiutare la cameriera del console a portare un involucro a casa sua, intuisce di essere passata ad un nuovo padrone. 
Un padrone che si rivela subito profondamento diverso dal turco perché, appena giunta a casa sua, la fa rivestire tutta: è la prima volta da quando è schiava che anche lei indossa un vero vestito. In casa di Calisto Legnani, una specie di filantropo che spesso ha comperato schiavi per liberarli e rimandarli nelle loro famiglie, il compito dell’adolescente è quello di aiutare la sua cameriera nelle faccende domestiche. Finiti i maltrattamenti,  la cieca obbedienza, i rimbrotti, le feroci punizioni.
Il Legnani, la cui attività principale è quella di importatore di gomma arabica di cui il Kordofan è il principale produttore al mondo, ha anche il compito di agente consolare italiano a Khartum  poiché nella capitale del Sudan hanno sede, tra l’altro, una grande missione comboniana e una scuola cattolica. Ed è molto probabile che il console abbia conosciuto l’illustre missionario Daniele Comboni che muore proprio a Khartum nel 1881 e, quindi, si sia dato da fare per opere misericordiose. Era in uso tra i ricchi europei, inoltre,  comperare gli schiavi per liberarli e farli ritornare nelle loro famiglie di origine. Solo che per Bakhita era impossibile rintracciare la sua poiché, per il trauma subito dopo il rapimento, non si ricordava più di nulla.
Dice Bakhita che il console prese a volerle bene e in quella casa visse infine un’esistenza felice e serena per due anni circa fino a quando l’uomo le comunica che deve rientrare immediatamente in Italia per gravi affari. Effettivamente Legnani deve fuggire da Khartoum alla fine del 1884 anche perché la città sta per essere conquistata dall’esercito mahdista.
PRIMO VIAGGIO IN ITALIA
Questa è una terribile notizia per la ragazza che ha paura di essere rivenduta. Le rassicurazioni del suo benefattore non la tranquillizzano ecco perché, prende tutto il coraggio della disperazione e le chiede di portarla con lui in Italia. Racconta Bakhita che appena sente pronunciare la parola “Italia” per lei è un’illuminazione  e sa che il suo futuro è in quel paese. Calisto Legnani  cerca di spiegare alla sudanese che non è facile partire, che il viaggio è molto lungo e costoso. Ma davanti alle suppliche della negretta, alla fine si arrende ed è così che partono con una carovana a dorso di cammello fino a Suakin, un porto del Mar Rosso. La comitiva, oltre alla trionfante Bakhita,  è composta dal console,  il suo amico Augusto  Michieli e un “moretto”, un ragazzino della stessa età della sudanese.  Al loro arrivo apprendono che Khartoum è stata attaccata dai ribelli e tutti gli schiavi e gli averi dei due italiani sono stati rubati. Se Bakhita fosse rimasta sarebbe di nuovo prigioniera nelle mani degli arabi.
I tempi dei viaggi di allora erano lunghi. Infatti, la comitiva sosta un mese nel porto del Mar Rosso prima di potersi imbarcare su una nave che li porterà a Genova. Al loro arrivo, Michieli, che aveva viaggiato con loro e che si era portato dietro lo schiavetto negro, preso alloggio in albergo, lo aveva subito ceduto all’albergatore poiché era stato proprio quest’ultimo a chiedergli di comperarglielo prima di partire dall’Italia. Questa vendita avrà una conseguenza sulla destinazione di Bakhita che così chiarisce: 
«La moglie dell’amico del console che aveva viaggiato con noi e che era venuta a incontrarlo a Genova, vedendo noi moretti se ne invogliò e chiese al marito perché non ne avesse condotta una anche per lei e per la sua figlioletta. Il console per far piacere all’amico e a sua moglie mi regalò a loro».
Siamo alla fine dell’Ottocento e in Italia ci sono molte servette nelle varie case dei signorotti per cui avere una giovane al proprio servizio 24 ore su 24 è normale. E lo doveva essere anche per Calisto Legnani che cede senza problemi la sudanese, sapendo, però, che andrà in una buona famiglia.
ARRIVO NELLA FAMIGLIA MICHIELI DI ZIANIGO DI MIRANO
Da quel momento la ragazza non rivedrà mai più il console che ritorna a casa sua a Padova, mentre lei segue i suoi nuovi padroni a Mirano Veneto. Augusto Michieli, che è un nobile veneziano con ascendenze asburgiche, aveva sposato Maria Turina, una russa di Pietroburgo. Lui è un facoltoso commerciante e svolge anche la professione di traduttore, viaggia molto per lavoro, in particolare in Africa.  Nella famiglia Michieli, la ragazza farà la domestica.
Ma intanto c’è un nuovo viaggio che la riporta in Africa. Fondamentale per gli affari di Michieli è l’apertura del Canale di Suez che era avvenuta nel 1869, però,  l’effetto più importante sui commerci mondiali si ebbe dal 1888 quando fu ratificata, tra i paesi finanziatori di questa opera, la convenzione di Costantinopoli che stabilì la neutralità del canale dichiarandolo libero e aperto a qualsiasi nave, senza distinzione di bandiera.  Augusto Michieli, prevedendo già qualche anno prima un grande sviluppo della città di Suakin sul Mar Rosso, decise di riprendere e ammodernare un albergo. Per cui sul finire del 1886 la moglie lo raggiunge con i figli e, Bakhita, dovrà occuparsi del bar-spaccio di questo albergo anche perché conosce bene l’arabo.
Tra i ricordi di Bakhita e la realtà non tutto combacia ed è difficile stabilire gli avvenimenti precisi, causa la scarsezza di informazioni del tempo. Tuttavia nell’estate del 1887 Maria Turina deve ritornare in Italia per vendere la proprietà di Mirano, dove risiedevano, poiché gli affari vanno bene e i coniugi hanno deciso di stabilirsi definitivamente nel porto sudanese con i loro figli. 
La donna esita a lasciare l’ultima nata, Alice, detta Mimmina, alle cure della servitù. Ecco perché la porta con sé e, poiché ha bisogno di aiuto con una bambina così piccola, chiede a Bahkita di accompagnarla in Italia.
L’INCONTRO CON ILLUMINATO CHECCHINI, IL SUO PROTETTORE
In Italia, a dare una mano per la vendita delle proprietà di Michieli c’è un personaggio, amico di famiglia, che si chiama Illuminato Checchini. Un intermediario d’affari, amministratore di terreni, consigliere, contadino-poeta-polemista, organizzatore di associazioni cattoliche, promotore e fondatore di casse rurali ecc.. ecc…Una persona dinamica, brillante, dalla penna salace malgrado la sua istruzione di seconda elementare. Infatti, di lì a poco, sotto il nome di  Stefano Massarioto pubblicherà, in dialetto veneto,  il suo primo “Lunario del Massarioto del 1890” con scritti satirici di natura sociale e politica che avranno grandissimo successo. Lui dirà che scrive “par la stala”, perché erano lì che si riunivano nelle sere d’inverno i contadini vicentini perlopiù analfabeti. Insomma una persona conosciuta da tutti e molto apprezzata. Sarà lui a dare una svolta nella vita di Bakhita.
Checchini, i cui terreni confinano con quelli di Augusto Michieli, frequenta assiduamente la sua casa per aiutare la moglie e, inevitabilmente, incrocia la ragazza sudanese.
Sarà quest’uomo ad avvicinare Bakhita alla fede cristiana. Il veneto Checcherini, che suona l’organo in chiesa, è profondamente cattolico  ̶  un integralista si direbbe oggi  ̶   ed è molto amico del parroco di Salzano, don Giuseppe Sarto, destinato a divenire prima Patriarca di Venezia poi Papa, con il nome di Pio X, ed essere infine canonizzato nel 1954. Checchini è lontano dall immaginare che queste due persone, così diverse, diverranno tutte e due sante.
Il veneto sa che la ragazza è “senza Dio” e ne intuisce il suo grande bisogno di spiritualità, ecco perché le regala un crocefisso. Di quel dono Bakhita spiega:
 «Nel darmi il crocefisso lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo che cosa fosse, ma spinta da una forza misteriosa lo nascosi per paura che la signora me lo prendesse. Prima non avevo mai nascosto nulla perché non ero attaccata a niente. Ricordo che nascostamente lo guardavo e sentivo una cosa in me che non sapevo spiegare».
Maria Turina, in effetti, era atea, anche se era stata avvicinata, come russa, alla religione ortodossa. Tuttavia Checchini aveva dovuto faticare molto per convincere la serva della Turina a recitare le preghiere insieme alla giovane sudanese per fargliele imparare.
Intanto la russa, dopo un anno, era riuscita a vendere solo una parte degli averi. Ella deve ritornare in Sudan perché il marito l’aspetta con ansia, ma sa già che di lì a breve dovrà rientrare in Italia per concludere altre vendite. Questo va’ e vieni le pone un grosso problema: è troppo rischioso per la figlia Mimmina fare tutti questi viaggi insieme a lei. Ed è Checchini che le prospetta la soluzione migliore: lasciare la piccolina con Bakhita presso l’Istituto dei Catecumeni, gestito dalle suore Canossiane di Venezia. L’uomo intuisce subito che grazie a questa scelta potrà avvicinare Bakhita al cristianesimo senza subire i divieti imposti dalla signora Michieli che non vede di buon occhio la sua evangelizzazione.
La Turina esita per un po’ e finisce per accettare alla sola condizione: che Checchini firmi una lettera in cui si impegna a pagare all’Istituto dei Catecumeni  la retta per Mimmina nel caso in cui lei non riesca ad assolvere al suo dovere.  E’ talmente importante per lui questa scelta che non solo firma ma le accompagna lui stesso all’Istituto a Venezia.
Bakhita al centro tra le Catecumene
IL SUO ARRIVO DALLE SUORE CANOSSIANE
Appena entra nell’Istituto, Bakhita viene affidata con Mimmina alle cure di suor Marietta Fabretti, addetta all’istruzione dei catecumeni. E racconta:
«Non posso ricordare senza piangere la cura che ella ebbe di me. Volle sapere se avessi desiderio di farmi cristiana e, sentito che lo desideravo e che ero venuta con quella intenzione, giubilò di gioia. Allora quelle sante madri con eroica pazienza mi istruirono e mi fecero conoscere quel Dio che fin da bambina sentivo in cuore senza sapere chi fosse. Ricordavo che nel mio villaggio in Africa vendendo il sole, la luna e le stelle, le bellezze della natura mi chiedevo chi mai poteva essere il padrone di queste belle cose? E provavo una gran voglia di vederlo, di conoscerlo e di prestargli omaggio. E ora lo conosco. Grazie, grazie mio Dio!» 
Proprio nel parlatorio di quell’Istituto è posto un’enorme crocefisso che le fa sobbalzare il cuore perché è la copia in grandezza reale di quello che custodisce segretamente: un altro segno del destino!
Siamo alla fine del 1888 - inizio ’89 e Bakhita ha ragione quando dice che le sante suore usarono tutta la loro pazienza per insegnarle i principi della fede Cristiana. La ragazza non solo non  sa leggere né scrivere ma non sa nemmeno parlare la lingua del posto. Infatti si esprime in una strana lingua tra il veneto e l’italiano ed è quindi difficile per lei capire concetti già abbastanza difficili per le persone normali. Tuttavia, la volontà è tale che, grazie soprattutto all’insegnamento del Checchini, afferra il concetto che Gesù Cristo, il figlio di Dio ama tutti, ma proprio tutti, ivi compresa lei ed è quindi importante battezzarsi perché solo così ci si può avvicinare a lui. E lei  questo lo desidera ardentemente. 
IL RITORNO DI MARIA TURINA MICHIELI PER RIPORTARLA SUL MAR ROSSO
Proprio mentre è immersa in questa grande spiritualità, circa un anno dopo il suo ingresso all’Istituto, ritorna da Suakin Maria Turina Michieli che deve risolvere le questioni rimaste pendenti e poi ripartire definitivamente per il Mar Rosso insieme alla figlioletta e a Bakhita che dovrà lavorare nell’albergo di famiglia. Non immaginando certo un rifiuto della schiava.
Invece Bakhita ha trovato la sua strada, vuole assolutamente battezzarsi e, quindi, non ha intenzione di ritornare in Africa.  Ecco come sintetizza il suo rifiuto alla sua padrona: 
«Io mi rifiutai di seguirla in Africa perché non ancora bene istruita nel battesimo. Pensavo pure che, anche se fossi stata battezzata, non avrei ugualmente potuto professare la nuova religione e che mi conveniva meglio di stare con le suore. La signora montò su tutte le furie, accusandomi di essere ingrata nel lasciarla partire da sola, mentre mi aveva fatto tanto bene. Ma io restai ferma nel mio pensiero. Mi disse tanta e tante ragioni ma per nessuna mi piegò. Eppure soffrivo nel vederla così disgustata perché le volevo bene davvero. Era il Signore che mi infondeva tanta fermezza, perché voleva farmi tutta sua. Oh, bontà! Il giorno seguente ritornò in compagnia di una signora e ritentò la prova con le più aspre minacce. Ma inutilmente. Se ne andarono indispettite.  Il reverendo Superiore dell’Istituto, don Jacopo de’ Conti Avogadro di Soranzo , scrisse a Sua Eminenza il Patriarca Domenico Agostini sul da farsi. Questi ricorse al Procuratore del Re il quale mandò a dire che, essendo io in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, restavo affatto libera. Anche la signora Turina si portò dal Procuratore del Re credendo di ottenere che la seguissi, ma ebbe l’eguale risposta.  Il terzo dì eccola di nuovo all’Istituto con la stessa signora e un suo cognato, ufficiale militare. Vi erano pure Sua Eminenza il Patriarca Domenico Agostini, il presidente della Congregazione della carità, il superiore della casa e alcune suore del Catecumenato. Parlò prima il patriarca. Ne seguì una lunga discussione terminata in mio favore. La signora Turina, piangendo dalla collera e dal dispiacere, prese la bambina, che non voleva staccarsi da me, forzandomi a seguirla. Io ero tanto commossa che non riuscivo a dire una parola. La lasciai piangendo e mi ritirai contenta di non aver ceduto».
Un racconto stringato, quello di Bakhita e che non dice tutta l’energia, il coraggio, la forza di volontà, che la piccola negretta, schiava fino a non molto tempo prima, ha dovuto tirare fuori per non lasciarsi convincere e convincere a sua volta gli altri a sostenere il suo diritto a stare con le suore. E’ incredibile ma, per lei, si sono mosse le massime autorità religiose e politiche del luogo. Maria Turina per rientrare nei suoi diritti ha fatto appello a tutte le persone influenti che conosceva, invano.
Di questa lotta si hanno notizie grazie a Ida Zanolini, un’insegnante a cui le suore avevano chiesto di  farsi raccontare la storia da Bakhita e di trascriverla. E Bakhita le ha spiegato  di aver chiesto aiuto in quei giorni al crocefisso del parlatorio perché convinta che lasciare la Casa del Signore sarebbe stata la sua rovina, anche perché la ragazza in quel primo anno di permanenza al Catecumenato aveva probabilmente già maturato l’idea di dedicare la sua esistenza interamente a Dio, “el Paron” come lei lo chiamava. Inoltre, la prima esperienza nell’albergo di Suakin, le aveva fatto capire che genere di gente trafficasse in quei luoghi: avventurieri senza scrupoli, delinquenti veri e propri, mentre lei  ̶  miracolosamente  ̶  come disse un giorno, era ancora pura: «Io sono stata in mezzo al fango, ma non mi sono mai imbrattata», e intuiva che, in effetti, quel miracolo non si sarebbe potuto ripetere. Ecco perché ha lottato con tutte le sue forze contro il ritorno in Africa.
BAKHITA DIVENTA SUORA
Poco tempo dopo la partenza della Turina, il 9 gennaio del 1890, Bakhita riceve il battesimo, la cresima e fa la prima comunione, sacramenti  impartiti dal cardinale Agostini mentre il padrino e la madrina saranno due nobili veneziani: le viene imposto il nome di Giuseppina, Margherita, Fortunata. Un giorno eccezionale per la sudanese che  vive con una gioia immensa “come solo gli angeli potrebbero descrivere” perché anche lei è degna di essere figlia di Dio.  
Bakhita e le sue madrine
 
A quella cerimonia c’è anche Checchini con tutta la sua famiglia che le ricorda che lui è disposto a prenderla a casa come una figlia. Ma la ragazza africana ha altri progetti e chiede di rimanere con le suore.  La Congregazione accetta di buon grado. Passano i mesi che trascorre per la prima volta della sua vita in totale serenità, appagata spiritualmente come non mai. E’ lì che Giuseppina trova il coraggio di rivolgersi in prima persona al Paròn e alla Madonna che diventano, nel suo immaginario di ragazza orfana, padre e madre amorevoli.  Però Giuseppina è anche piena di dubbi  che riesce a confidare sia a Suor Fabretti che al suo confessore. Il suo desiderio è di diventare suora ma pensa che lei, negretta, fa sfigurare la Congregazione e, quindi, non vi può aspirare. 
Non sa che ormai l’avevano capito tutti che la ragazza possedeva un’inclinazione spirituale e mistica per cui la strada della vita religiosa era quella che le si confaceva di più e la sua domanda è accolta con entusiasmo.
Erano passati quattro anni da quando era arrivata all’Istituto. Prima di entrare in noviziato, il 7 dicembre del 1893, raggiunge la famiglia d’Illuminato Checchini  e vi rimane per tre mei. Del Massariota, che l’ha sempre considerata come una figlia,  dirà poi  che egli era un uomo dal cuore d’oro e di retta coscienza.
Tre anni dopo è pronta per entrare nella vita religiosa e, prassi vuole, che l’aspirante ai voti religiosi sia esaminata da un alto rappresentante della Chiesa. La sua vicenda è talmente conosciuta che a voler esaminare Giuseppina sarà nientemeno che il cardinale patriarca della città di Venezia Giuseppe Sarto, l’amico d’infanzia di Checchini che, come già detto, sarà santificato come lei e che capisce e asseconda la grande spiritualità di questa giovane sudanese.
L’11 gennaio 1897, a Verona, Giuseppina-Bakhita realizza il suo sogno di diventare suora. Anche ai successivi festeggiamenti saranno presenti tutte le massime autorità. La giovane africana con quel suo modo umile,  gioioso, sereno,  ha conquistato tutti per cui accorrono in molti. In particolare è invitata dal vescovo di Verona, Luigi Canossa, nel suo palazzo dove ha vissuto sua zia Santa Maddalena di Canossa, fondatrice delle canossiane. E così, senza saperlo, Suor Giuseppina inizia la sua vita religiosa sulle orme di due grandi Santi.  
Da quel momento Suor Giuseppina, ribattezzata dai paesani suor Moreta e che ne apprezzano il suo senso ironico espresso in un veneto colorato, vivrà la sua dimensione spirituale in simbiosi con “el Paròn” e la Madonna.
Dal 1896 e fino al 1902 continuerà a vivere il suo noviziato presso i Catecumeni a Venezia. Poi, per volontà del patriarca Giuseppe Sarto, che continua a vegliare su di lei, sarà trasferita nella casa canossiana di Schio in provincia di Vicenza. Lì la suora vi rimarrà, salvo rari spostamenti, fino alla morte.
BAKHITA DEVE DEDICARSI ALLA PROPAGANDA MISSIONARIA
Nel convento di Schio Suor Giuseppina sarà addetta a varie mansioni come sacrestana, cuciniera, portinaia, ricamatrice ecc…, e si occuperà in particolare dei bambini che hanno verso questa donna una vera e propria adorazione. L’Africana, con quella sua carnagione nera è una novità. Da quando è arrivata in Italia, infatti, tutti la guardano con grande curiosità, apertamente, spudoratamente. Ma lei non se ne ha a male, è abituata da quando era schiava e veniva messa in mostra per essere venduta. Sempre sorridente, sempre gentile, sempre pronta a scusare tutti e che si esprime in un veneto, colorato, molto ironico. E questo non fa che attirarle la simpatia di tutti che la chiamano “Suor Moreta”.
Suor Giuseppina Bakhita
Durante la Prima guerra mondiale (1915-1918) Suor Moreta è chiamata a prestare la sua assistenza ai feriti e ai moribondi. E i soldati finiranno per apprezzare questa suora africana che sa rincuorarli e alleviare le loro pene e che trovano grande conforto nelle sue semplici parole. Anche i militari si stringono intorno a lei perché  vogliono conoscere la sua storia. Tuttavia, non mancano i suoi predicozzi a quelli che si lasciano sfuggire qualche bestemmia, siano essi soldati semplici o ufficiali.
Questa curiosità intorno alla suora, spinge la superiora del suo convento a chiedere all’insegnante Ida Zanolini di mettere per iscritto la storia di Bakhita. L’africana, infatti, non sa scrivere e, quindi, non è in grado di farlo da sola. Il libro uscirà nel 1931 con il titolo: Storia meravigliosa e incontrerà un successo strepitoso poiché verrà stampato in più lingue.
Dopo averlo letto, tutti vogliono conoscere la protagonista e vengono in molti fino a Schio per avere un suo autografo. Le stesse suore di altri conventi chiedono alla superiora di poterla avere fra di loro. Ecco perché i superiori decidono di destinare Suor Giuseppina alla propaganda missionaria inviandola in giro per l’Italia a tenere incontri.
L’attenzione e l’affetto che riceve dalla gente invece di essere una ricompensa è per lei una vera tortura. Confida, infatti, ad una consorella che la trova in lacrime e che le chiede se è sofferente: «No sofferenze sul corpo, no, ma come bella bestia tutti me varda, ma mi voria lavorar, pregar per tutti e no vardar persone. E po anca i dise “poareta, poareta” e mi non son poareta parché son del Paròn e nea sa casa. Quei che no i xe tutti del Signore i xe poareti».  Bisogna dire, in effetti, che la curiosità della gente, a tutti i livelli, era davvero grande, come racconta una suora che l’accompagnava: «Persino i tram erano fermi tanto le folle rigurgitavano…». 
Tra questi incontri glie ne capita uno particolare, una suora sudanese come lei, ex schiava come lei, Suor Maria Agostina, che vive nel convento di clausura di Soresina, liberata anche lei dalla schiavitù da un italiano. Un incontro commovente perché Bakhita, si convince che questa sudanese sia  la propria sorella strappata da un negriero alla loro capanna. 
Nel 1938 finiscono questi viaggi di propaganda missionaria e Suor Giuseppina, ormai dolorante, ritorna definitivamente nel suo convento a Schio e vi rimarrà fino alla morte avvenuta l’8 febbraio 1947, dopo lunghe sofferenze, dovute alle torture subite da bambina. Le suore, quando lavano il suo corpo e lo vestono, rimangono attonite davanti alle sue 114 ferite dovute ai tatuaggi e del profondo svuotamento di carne provocato dalle percosse sulla coscia destra. Racconta chi gli è stato vicino che durante l’agonia chiedeva di essere liberata dalle catene. Però, malgrado queste torture, nessuno ha mai sentito Suor Giuseppina lagnarsi o inveire contro i suoi carnefici. Anzi, ad una ragazzina che gli chiedeva cosa avrebbe fatto se si fosse trovata davanti i suoi rapitori, Suor Moreta ha risposto che  gli avrebbe baciato le mani e ringraziati perché senza di loro non sarebbe mai diventata una cristiana e una religiosa.
Suor Giuseppina negli ultimi tempi della sua vita ci teneva a dire che lei dopo morta non avrebbe fatto paura a nessuno perché conosceva la bontà del Paròn e della Madonna e, una volta in cielo, avrebbe interceduto presso di loro pregando per tutti.  Un concetto, questo,  che esprime varie volte e che è accolto dalla gente che accorre numerosissima alle sue esequie, tra questi molti bambini che davanti al cadavere esposto non mostrano nessun timore e si fanno mettere la mano di lei  ̶  rimasta incredibilmente morbida e tiepida  ̶  sul capo.
BAKHITA SANTA
Suor Giuseppina Bakhita con  il suo esempio, la sua umiltà,  la sua bontà, la sua fede totale, granitica nel Paròn ha toccato il cuore della gente.  Aveva un linguaggio scarno e spesso ironico che faceva divertire, mentre  la sua figura irradiava una tale felicità che commuoveva tutti.  Le sue erano frasi che esprimevano concetti chiari, senza equivoci:  “El me Paròn xe sta tanto bon con mi»,  «El vol ben a tuti. Volemoghe ben e non ofendemolo col pecato».
E anche da morta una fiumana di gente corre da lei a visitare la sua cameretta a Schio, a mettere bigliettini sotto il suo cuscino, perché sa che da questa suora africana può avere solo comprensione e aiuto. 
E, infatti, cominciano subito le grazie e i miracoli. Quando esce, tre anni dopo, “Vita”,  il Bollettino delle canossiane, vi si trova già un elenco di pagine e pagine di nomi delle persone che hanno ricevuto la grazia attraverso la sua intercessione. Molte storie di disperazione che si sono risolte grazie alle preghiere rivolte alla suora sudanese, così raccontano in tanti. Però la Chiesa ritiene solo due miracoli documentati dai medici: una consorella e una donna brasiliana. 
Per molti Bakhita era già santificata in vita e non poteva non esserlo dopo la sua morte. Infatti il processo di canonizzazione inizia già nel 1959, a soli 12 anni dalla morte. Il 1º dicembre 1978 papa Giovanni Paolo II firma il decreto dell'eroicità delle virtù della serva di Dio Giuseppina Bakhita. La suora africana viene beatificata il 17 maggio 1992 e canonizzata il 1º ottobre 2000 dallo stesso Pontefice. La memoria liturgica si celebra l’8 febbraio di ogni anno.

Ed è così che, una piccola schiava sudanese di fede animista, una figlia dell’Africa nera, è diventata una grande Santa della Chiesa Cattolica,  beatificata non solo in Europa ma in tutto il continente africano perché dopo la santificazione è proprio Giovanni Paolo II a riaccompagnare Bakhita nella sua terra, esattamente 134 anni dopo la sua nascita. E’ il 1993 quando Wojtila va in visita ufficiale a Khartoum e consegna alla immensa folla composta di cattolici provenienti da tutta l’Africa un busto-reliquario in bronzo di madre Bakhita. Busto che poi passa nelle mani del vescovo di Khartoum, Zubeir Waco. E’ la prima volta in quel paese dove vige la sharia, la legge islamica, che viene celebrata una messa.
Una Santa protettrice dei poveri che ha saputo diffondere speranza. Ha dimostrato che anche i più derelitti possono, attraverso la religione, conquistare dignità, grandezza e libertà. Ed è per questo che Santa Giuseppina Bakhita è invocata ormai dai credenti del mondo intero, in particolare dagli africani. 
Barbara Bertolini©2018 tutti i diritti riservati.
Bibliografia:
ZANOLINI Ida, Bakhita, Istituto della Carità Canossiane, Roma 1961.
DAGNINO Maria Luisa, Bakhita racconta la sua storia, Figlie della Carità, 4° ed., Roma 1993
ZANINI Roberto Italo, Bakhita. La schiava diventata santa, Buc, Edizioni San Paolo s.r.l, Cinisello Balsamo 2013.
Sito Bakhita: Da schiava a figlia di Dio
Famiglia Crisitana: Santa Giuseppina Bakhita. La schiava divenuta santa




6 commenti:

  1. Una storia straordinaria, questa di santa Giuseppina, da te raccontata in maniera rigorosa, con ricchezza di documenti e tanta partecipazione umana! Una figura che arricchisce il pianeta femminile con il suo fulgido esempio di vita e di opere. Brava Barbara!

    RispondiElimina
  2. Grazie Rita, questa è una storia che non può che coinvolgere ognuno di noi...

    RispondiElimina
  3. Delicata e ricca di forza questa bella storia di "Suor Moreta". Brava Barbara, con la capacità che ti é propria, sei riuscita a dipingere un ritratto di una donna che sbalza a tratti prorompenti da un fondo di crudeltà e ingiustizie. Non ho lasciato la narrazione fino alla fine. Mi ha davvero coinvolto, grazie!

    RispondiElimina
  4. Grazie a te per questo bellissimo commento.

    RispondiElimina
  5. bella storia di "Suor Moreta"

    RispondiElimina
  6. Se ti comporti da idiota con qualcuno a cui tieni, ammettilo e vai avanti e non tornare mai più.
    E questo è https://filmstreaminghd.video il film.

    RispondiElimina